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Il fragore del temporale fu squarciato da un fischio lontano.

— Sente? — chiese il Maestro.

— È il temporale…

— No, chiamano me, è ora, — spiegò il Maestro e si alzò dal letto.

— Aspetti! Una parola ancora, — pregò Ivan. — Ha ritrovato lei? Le era rimasta fedele?

— Eccola, — rispose il Maestro e indicò la parete. Dalla bianca parete si distaccò, scura, Margherita, che si avvicinò al letto. Guardava il giovane disteso, e nei suoi occhi si leggeva l’afflizione.

— Povero, povero Ivan, — sussurrò Margherita con le sole labbra, chinandosi sul letto.

— Com’è bella, — disse Ivan senza invidia, ma con mestizia e con una placida commozione, — guarda come le cose si sono messe bene per voi. Per me invece no, — qui rifletté, e aggiunse, pensieroso: — o forse sí, invece…

— Sí, sí, senz’altro, — sussurrò Margherita e si chinò completamente su di lui. — Adesso le do un bacio e tutto per lei andrà bene… mi creda, ho già visto di tutto, so tutto…

Il giovane, steso sul letto, le abbracciò il collo, ed essa lo baciò.

— Addio, discepolo, — disse il Maestro con voce appena percettibile e cominciò a dissolversi nell’aria. Scomparve, e con lui scomparve Margherita. L’inferriata del balcone si chiuse.

Ivanuška divenne irrequieto. Si sedette sul letto, si guardò preoccupato in giro, gemette perfino, cominciò a parlare con se stesso, si alzò. Il temporale imperversava sempre piú forte e, evidentemente, lo rendeva agitato. Era anche inquieto perché dietro la porta, col suo udito ormai assuefatto al costante silenzio, aveva afferrato passi rapidi e voci sorde. Chiamò, cominciando a innervosirsi e a sussultare:

— Praskov’ja Fëdorovna!

Praskov’ja Fëdorovna stava già entrando nella stanza, guardando Ivanuška con espressione interrogativa e preoccupata.

— Che cosa? Che cosa c’è? — chiedeva. — La turba il temporale? Niente, niente… adesso l’aiuteranno… adesso chiamo il dottore…

— No, Praskov’ja Fëdorovna, non è il caso di chiamare il dottore, — disse Ivanuška guardando inquieto non Praskov’ja Fëdorovna, bensí la parete, — non ho niente di speciale. Adesso comincio a capire, non si preoccupi. Mi dica piuttosto, — pregò Ivan con voce carezzevole, — che cos’è successo lí vicino, nella stanza 118?

— Nella 118? — ripeté la domanda Praskov’ja Fëdorovna, e i suoi occhi diventarono sfuggenti. — Niente, proprio niente — . Ma la sua voce era falsa. Ivanuška se ne accorse subito e disse:

— Eh, Praskov’ja Fëdorovna! Lei è una persona sincera… Crede che darò in escandescenze? No, Praskov’ja Fëdorovna, questo non succederà. E meglio che lei dica la verità, tanto io sento tutto attraverso la parete.

— E morto adesso il suo vicino, — sussurrò Praskov’ja Fëdorovna, incapace di vincere la sua sincerità e bontà, e, tutta rivestita della luce d’un fulmine, guardò spaventata Ivanuška. Ma ad Ivanuška non successe nulla di terribile. Si limitò ad alzare il dito con fare significativo e disse:

— Lo sapevo! Le assicuro, Praskov’ja Fëdorovna, che in questo momento in città è morta anche un’altra persona. So perfino chi è, — qui Ivanuška sorrise con aria misteriosa: — è una donna!

CAPITOLO TRENTUNESIMO

Sui Monti dei Passeri[26]

Il temporale passò senza lasciare traccia e, come un arco gettato attraverso tutta Mosca, c’era in cielo un arcobaleno multicolore, che affondava nelle acque della Moscova. In alto, sulla collina, tra i due boschi si vedevano tre figure nere di profilo. Woland, Korov’ev e Behemoth sedevano su dei morelli sellati, guardando la città distesa dall’altra parte del fiume, col sole spezzato che brillava in mille finestre rivolte verso occidente, verso le torri di marzapane del monastero di Devičij.

Nell’aria si sentí un rumore, e Azazello, sulla nera coda del cui manto volavano il Maestro e Margherita, scese con loro presso il gruppo delle persone in attesa.

— Si è dovuto íncomodarla, Margherita Níkolaevna, e, lei, Maestro, — disse Woland dopo un po’ di silenzio, — ma non serbatemene rancore. Non credo che vi dispiaccia. Ebbene, — si rivolse egli al solo Maestro, — dica addio alla città. Per noi è giunta l’ora, — Woland indicò con la mano infidata in un guanto nero svasato là dove innumerevoli soli fondevano i vetri oltre il fiume e sopra questi soli c’era lo strato di nebbia, di fumo e di vapore della città arroventatasi durante il giorno.

Il Maestro saltò giú dalla sella, lasciò gli altri e corse verso il dirupo della collina. Il nero mantello gli strascicava dietro per terra. Il Maestro prese a guardare la città. Nei primi istanti nel cuore gli si insinuò una tristezza struggente, ma ben presto essa fu sostituita da una dolce inquietudine, da un’ansia zingaresca di vagabondaggio.

— Per sempre!… Bisogna rendersene conto, — bisbigliò il Maestro e si passò la lingua sulle labbra secche, screpolate. Si mise ad ascoltare e a rilevare con esattezza tutto quello che avveniva nell’anima sua. La sua ansia trapassò, gli parve, in un senso di profonda e sentita offesa. Ma essa era instabile, scomparve e inspiegabilmente fu sostituita da un’orgogliosa indifferenza, e questa dal presentimento di un immutabile riposo.

Il gruppo dei cavalieri aspettava il Maestro in silenzio. Il gruppo dei cavalieri guardava la sua nera, lunga figura, che gesticolava sull’orlo del dirupo e ora sollevava la testa, quasi cercasse di gettare lo sguardo attraverso l’intiera città e di guardare al di là dei suoi confini, ora la lasciava ricadere sul petto, quasi a studiare la rachitica erba calpestata ai suoi piedi.

Il silenzio fu interrotto da Behemoth che s’annoiava.

— Mi permetta, Maître, di fare un fischio d’addio prima della cavalcata, — disse.

— Potresti spaventare la signora, — rispose Woland, — e poi non dimenticare che per oggi le tue marachelle sono finite.

— No, no, Messere, — replicò Margherita, seduta sulla sella come un’amazzone, coi pugni sui fianchi, e col sottile strascico che penzolava fino a terra, — glielo permetta, lo lasci fischiare. La tristezza mi ha presa al pensiero della lunga strada che ci attende. Non è vero, Messere, che essa è perfettamente naturale anche quando si sa che alla fine della strada attende la felicità? Ci diverta pure, se no temo che finiremo per piangere, e tutto sarà rovinato prima d’intraprendere il cammino!

Woland fece un segno di capo a Behemoth, questi si rianimò tutto, balzò giú di sella, si mise le dita in bocca, gonfiò le gote e fischiò. A Margherita squillarono le orecchie. Il suo cavallo s’impennò, nel boschetto caddero i rami secchi dagli alberi, si alzò in volo un intero stormo di corvi e di passeri, una colonna di polvere fu sospinta verso il fiume, e si videro cadere in acqua i berretti di alcuni passeggeri del vaporetto che passava presso l’imbarcadero.

Il Maestro sobbalzò a quel fischio, ma non si voltò, e cominciò a gesticolare piú irrequieto, alzando un braccio al cielo, come se minacciasse la città. Behemoth si guardò intorno con orgoglio.

— Hai fischiato, non discuto, — osservò Korov’ev con condiscendenza, — sí, hai fischiato, però, a essere obiettivi, il fischio era molto mediocre.

— Ma io non sono un maestro di cappella, — rispose Bebemoth dignitoso e imbronciato, e improvvisamente ammiccò a Margherita.

— Toh, mi ci provo anch’io, come nei bei tempi andati, — disse Korov’ev, si fregò le mani e si soffiò sulle dita.

— Guarda però di non fare male alla gente, — si udí la voce severa di Woland a cavallo.

— Messere, mi creda, — rispose Korov’ev e si pose una mano sul cuore, — è uno scherzo, è soltanto uno scherzo… — Di colpo si allungò come se fosse stato di gomma, con le dita della destra formò una bizzarra figura, si attorcigliò come una vite e poi, distorcendosi di scatto, fischiò.

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26

Sono i Vorob’evy gory, un’altura alla periferia di Mosca.

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