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Ivan non si offese per il termine «cretino», ma, rimanendone anzi gradevolmente sorpreso, sorrise, e si calmò cadendo in dormiveglia. Il sonno avanzava furtivo verso Ivan, e già gli appariva in sogno una palma su una zampa elefantesca, e gli passò accanto il gatto, non piú terribile ma allegro, insomma, il sonno stava per impadronirsi di Ivan, quando all’improvviso l’inferriata si spostò in silenzio di lato e sul balcone apparve una figura misteriosa che si nascondeva alla luce lunare e minacciò Ivan col dito.

Senza il minimo spavento, Ivan si sollevò sul letto e vide sul balcone un uomo. Questo, poggiando un dito sulle labbra, sussurrò:

— Sttt!

CAPITOLO DODICESIMO

La magia nera e il suo smascheramento

Un ometto col tubino giallo bucato e il naso a pera color lampone, coi pantaloni a quadretti e le scarpe di vernice uscí sulla scena del Varietà su una normale bicicletta a due ruote. Accompagnato da un fox-trott, fece un giro, poi lanciò un urlo vittorioso che fece impennare la bicicletta. Fatto un altro giro sulla sola ruota posteriore, l’ometto si mise a gambe in su, riuscí, sempre in marcia, a svitare la ruota anteriore e a lanciarla dietro le quinte, poi continuò a girare con una sola, pedalando con le mani.

Su un lungo palo metallico, munito di un sellino in alto e di un’unica ruota, arrivò una bionda grassoccia in calzamaglia e gonnellino cosparso di stelle d’argento, e cominciò a girare in tondo. Incontrandola, l’ometto lanciava grida di saluto, e con un piede sollevava il tubino dalla testa.

Giunse infine un bimbetto di otto anni circa dal viso da vecchio e cominciò a scorrazzare tra l’uomo e la donna su una minuscola bicicletta munita di un enorme clacson.

Dopo aver compiuto alcuni giri, gli acrobati, accompagnati da un irrequieto rullare di tamburi, arrivarono fino all’orlo del palcoscenico, e gli spettatori delle prime file si buttarono all’indietro con esclamazioni perché sembrava che l’intero trio con le sue biciclette sarebbe precipitato nella fossa dell’orchestra.

Ma le biciclette si fermarono nell’istante preciso in cui le ruote anteriori minacciavano di piombare sulle teste dei musicisti. Gridando forte «Up!», i ciclisti balzarono giú dalle loro macchine per salutare: la bionda mandava baci al pubblico, mentre il bimbetto fece suonare un buffo segnale al suo clacson.

Gli applausi scossero l’edificio, un sipario azzurro avanzò dai due lati e coprí i ciclisti, le luci verdi con la scritta «Uscita» sopra le porte si spensero, e, nella ragnatela dei trapezi sotto la cupola, come un sole si accesero dei globi bianchi. Era l’intervallo prima dell’ultima parte.

L’unica persona che non era minimamente incuriosita dalle meraviglie di tecnica ciclistica della famiglia Giulli era Grigorij Danilovič Rimskij. Se ne stava nel suo ufficio in assoluta solitudine, mordicchiandosi le labbra sottili e il suo volto era alterato da una continua contrazione. Alla straordinaria scomparsa di Lichodeev si era aggiunta ora quella, assolutamente imprevedibile, di Varenucha.

Rimskij sapeva dove era andato, ma lui se n’era andato… e non era tornato indietro! Si stringeva nelle spalle e sussurrava tra sé:

— Ma perché?!

E cosa strana: per un uomo navigato come il direttore finanziario, la soluzione piú semplice sarebbe stata quella di telefonare là dove si era diretto Varenucha, per chiedere che cosa gli fosse successo, eppure fino alle dieci di sera non poté imporsi di fare questa telefonata.

Alle dieci, infine, facendo addirittura violenza su se stesso, Rimskij afferrò il ricevitore del telefono e si accorse che il suo apparecchio era morto. Il fattorino riferí che anche gli altri telefoni dell’edificio erano guasti. Questo fenomeno sgradevole, naturalmente, ma non soprannaturale, scosse definitivamente il direttore finanziario, ma nello stesso tempo lo rallegrò: era venuta meno la necessità di telefonare.

Quando sopra la sua testa si accese e cominciò a lampeggiare la luce rossa che segnalava l’inizio dell’intervallo entrò il fattorino per comunicare che era giunto l’artista straniero. Il direttore finanziario ebbe un brivido e, fattosi piú cupo di un nembo, si diresse verso le quinte per accogliere l’artista, poiché non c’era nessun altro per farlo.

Dal corridoio, dove strepitavano già i cicalini, nel grande camerino entravano dei curiosi con vari pretesti. Vi erano prestigiatori dai camici e turbanti multicolori, un pattinatore con un maglione bianco, un presentatore pallido di cipria e il truccatore.

La celebrità straniera stupí tutti per la lunghezza inaudita del suo frac di splendido taglio e perché portava una mezza maschera nera. La cosa piú strana però erano i due accompagnatori del mago: uno spilungone a quadretti con occhiali a molla incrinati, e un grasso gatto nero che entrò nel camerino sulle zampe posteriori e sedette con disinvoltura sul divano, guardando con gli occhi socchiusi le nude lampade per il trucco.

Rimskij cercò di abbozzare un sorriso, che gli rese la faccia acida e cattiva, e salutò il mago, che era seduto in silenzio sul divano, vicino al gatto. Non vi furono strette di mano. Invece lo sfacciato individuo a quadretti si presentò da solo al direttore finanziario, chiamandosi «aiutante di sua eccellenza». Questa circostanza sorprese il direttore e lo sorprese in modo sgradevole: nel contratto nessun articolo menzionava un aiutante.

In modo forzato e secco Grigorij Danilovič chiese al tipo a quadretti che gli era capitato tra capo e collo, dove fosse l’attrezzatura dell’artista.

— Diamante nostro divino, preziosissimo signor direttore, — rispose l’aiutante del mago con voce tremolante, i nostri apparecchi sono sempre con noi, eccoli! Ein, zwei, drei! — E dopo aver rigirato le dita nodose davanti agli occhi di Rimskij, estrasse all’improvviso da dietro un orecchio del gatto l’orologio d’oro di Rimskij con la sua catena, che fino a quel momento si trovavano nel taschino del gilè sotto la giacca abbottonata, con la catena infilata nell’occhiello.

Involontariamente Rimskij si afferrò la pancia, i presenti lanciarono esclamazioni, e il truccatore, che occhieggiava dalla porta, emise un grugnito di approvazione.

— È suo, l’orologino? Se lo prenda, per favore, — disse quello a quadretti con un sorriso insolente, e, sopra la palma sporca, porse a Rimskij, sbigottito, l’oggetto di sua proprietà.

— Con uno cosí è meglio non salire in tram, — sussurrò il presentatore al truccatore, con voce sommessa e allegra.

Ma il gatto ne fece una piú bella di quella con l’orologio. Si alzò all’improvviso dal divano, andò, reggendosi sulle zampe posteriori, al tavolino da toilette, con una zampa anteriore estrasse il tappo dalla caraffa, si versò dell’acqua in un bicchiere, la bevve, rimise il tappo al suo posto e si asciugò i baffi con un cencio del truccatore.

Qui non si udirono neppure piú esclamazioni: tutti spalancarono la bocca, mentre il truccatore sussurrò con ammirazione.

— Che classe!…

In quel momento per la terza volta suonarono inquieti i cicalini, e tutti, pregustando quel numero sensazionale, uscirono eccitati dal camerino.

Un minuto dopo, nella sala si spensero i globi, si accese la ribalta che lanciò sulla parte inferiore del sipario un riflesso rossastro e nella fessura illuminata del sipario apparve davanti ai pubblico un uomo grassoccio allegro come un bambino, dal volto rasato, col frac sgualcito e la camicia non di bucato. Era il presentatore Georges Bengal’skij, ben noto a tutta Mosca.

— E cosí, signori, — cominciò Bengal’skij con un sorriso da pargolo, — adesso vedrete… — Qui Bengal’skij si interruppe e cambiò tono: — Vedo che il pubblico è ancora aumentato per quest’ultima parte dello spettacolo. Oggi abbiamo qui mezza città! Qualche giorno fa, incontro un amico e gli dico: «Perché non vieni da noi? Ieri abbiamo avuto mezza città!» E lui mi risponde: «Io vivo nell’altra mezza!» — Bengal’skij fece una pausa aspettandosi uno scoppio di risate, ma poiché nessuno rise, continuò: — … E cosí vedrete il celebre artista straniero monsieur Woland in una seduta di magia nera. Be’, noi tutti sappiamo, — qui Bengal’skij fece un sorriso pieno di saggezza, — che la magia nera non esiste, che non è altro che superstizione, ma il fatto è che il maestro Woland padroneggia al massimo grado la tecnica della prestidigitazione, come si vedrà nella parte piú interessante, cioè quando questa tecnica verrà smascherata, e poiché noi tutti come un sol uomo siamo interessati sia alla tecnica sia al suo smascheramento, ecco a voi il signor Woland!…

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