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— Cerca l’uscita, signore? — s’informò con fessa voce tenorile il tizio a quadretti. — Di qui, prego! Vada diritto, e arriverà a destinazione. Per il consiglio mi dovrebbe pagare un quartino… cosí l’ex maestro di cappella si tira su!… — Facendo mille smorfie quell’individuo si tolse il berretto da fantino con un ampio gesto.

Berlioz non stette ad ascoltare quel vagabondo e buffone che si diceva maestro di cappella, si avvicinò di corsa verso il tornello di uscita e vi appoggiò la mano. Dopo averlo girato, si accingeva già a mettere i piedi sulle rotaie quando gli esplose in viso una luce rossa e bianca: nella cassetta di vetro si era accesa la scritta «Attenti al tram!»

E subito spuntò il tram annunciato, voltando sulla nuova linea che portava dall’Ermolaevskij alla Bronnaja. Dopo che ebbe voltato e imboccato il rettilineo, all’improvviso si illuminò all’interno di luce elettrica, ronzò e accelerò.

Il prudente Berlioz, benché fosse al sicuro, decise di tornare dietro il cancello, spostò la mano sul tornello e arretrò di un passo. In quell’istante la sua mano scivolò e perse l’appoggio, il piede, come se si fosse trovato sul ghiaccio, sdrucciolò inarrestabile sul selciato che scendeva declive verso le rotaie, l’altro piede volò in aria, e Berlioz fu sbalzato sulle rotaie.

Tentando di aggrapparsi a qualcosa, Berlioz cadde riverso, urtando leggermente la nuca sul selciato, e fece in tempo a vedere in alto, se a destra o a sinistra questo ormai non lo capí, la luna dorata. Riuscí a girarsi sul fianco, stringendo con un movimento impetuoso le gambe alla pancia, e, voltatosi, vide slanciarglisi addosso con una forza irrefrenabile il volto, completamente bianco di terrore, della conducente e il suo fazzoletto scarlatto. Berlioz non emise un grido, ma intorno a lui tutta la via strillò in un coro di disperate voci femminili.

La conducente diede uno strappo al freno elettrico, la vettura s’impuntò, poi sobbalzò all’istante, e con uno schianto e un tintinnio i vetri volarono via dai finestrini. Allora nel cervello di Berlioz qualcuno gridò disperatamente: «Possibile?…» Ancora una volta — l’ultima — balenò la luna, ma ormai rovinando in pezzi, poi fu buio.

Il tram coperse Berlioz, e, sotto il cancelletto del viale Patriarscij, sul pendio lastricato fu gettato un oggetto tondo e scuro, che rotolò giú dalla china, saltellando sul selciato.

Era la testa mozzata di Berlioz.

CAPITOLO QUARTO

L’inseguimento

Si spensero le isteriche urla femminili, tacquero gli stridenti fischietti dei poliziotti, due ambulanze portarono via: l’una, il corpo decapitato e la testa tagliata all’obitorio e l’altra, la bella conducente ferita dalle schegge di un vetro, alcuni portinai dai bianchi grembiuli spazzarono via i frammenti di vetro e cosparsero di sabbia le pozze di sangue; e Ivan Nikolaevič, che si era lasciato cadere su una panchina senza arrivare fino all’uscita, vi si accasciò. Tentò piú volte di alzarsi, ma le gambe non gli ubbidivano: gli era venuta una specie di paralisi.

Il poeta si era precipitato verso l’uscita non appena aveva sentito il primo urlo, e aveva visto la testa saltellare sul selciato. Era talmente scosso che, lasciatosi cadere sulla panchina, si morse una mano fino a farla sanguinare. Di quel pazzo di tedesco, naturalmente, si era dimenticato e cercava di capire una cosa sola: come era possibile che avesse appena parlato con Berlioz e, un momento dopo, quella testa…

Agitata, la gente correva davanti al poeta lungo il viale, gettando esclamazioni, ma Ivan Nikolaevič non percepiva le loro parole. Inaspettatamente, però, vicino a lui si incontrarono due donne, una, col naso appuntito e la testa scoperta, gridò all’altra queste parole proprio sopra l’orecchio del poeta:

— …Annuška, la nostra Annuška! Quella della Sadovaja! Guarda che ha combinato!… Ha comperato dell’olio di girasole dal droghiere, e, paf! la bottiglia le si rompe contro il cancello del giardino! Si è rovinata tutta la gonna, e tirava certi moccoli!… E lui, poverino, si vede che è scivolato ed è andato a finire sulle rotaie…

Di tutto quello che aveva gridato la donna, il cervello sconvolto di Ivan Nikolaevič aveva afferrato una sola parola: «Annuška»…

— Annuška… Annuška?… — borbottò il poeta guardandosi intorno allarmato, — un momento…

Alla parola «Annuška» si associarono «olio di girasole», e poi, chi sa perché, «Ponzio Pilato». Il poeta respinse Pilato, e cominciò a connettere una serie di associazioni a partire da «Annuška». La catena si formò molto presto e subito lo condusse a quel matto di professore.

«Scusate! L’aveva ben detto, lui, che la riunione non ci sarebbe stata perché Annuška aveva rovesciato l’olio. E difatti la riunione non ci sarà! Non basta, ha detto chiaro e tondo che una donna avrebbe tagliato la testa a Berlioz?!

Sí, sí, sí! Il tram era guidato da una donna! Che cosa significa tutto questo, eh?»

Non rimaneva ombra di dubbio che il misterioso consulente conosceva con esattezza e in anticipo come si sarebbe svolta l’atroce morte di Berlioz. Due pensieri penetrarono allora nel cervello del poeta. Il primo: «Non è affatto pazzo, sono tutte sciocchezze», e il secondo: «Non l’avrà mica tramato lui?»

«Ma, scusate tanto, in che modo?! Eh no, questo lo sapremo!»

Facendo uno sforzo enorme, Ivan Nikolaevič si alzò dalla panchina e tornò a precipizio là dove aveva parlato col professore. Per fortuna, questi non era ancora andato via.

Sulla Bronnaja i lampioni erano già accesi, sopra i Patriarscie splendeva la luna dorata, e nella sua luce sempre ingannevole a Ivan Nikolaevič sembrò che l’uomo stesse in piedi, tenendo sotto il braccio non una canna, ma una spada.

L’ex maestro di cappella furbacchione sedeva al posto dove poco prima si trovava Ivan Nikolaevič. Adesso il vagabondo si era messo sul naso un paio di occhiali a molla chiaramente superfluo, dato che una delle lenti mancava e l’altra era incrinata. Cosí quel tizio a quadretti sembrava ancora piú repellente di quanto non fosse quando aveva indicato la via delle rotaie a Berlioz.

Con il cuore che gli si gelava, Ivan si avvicinò al professore e, guardatolo in faccia, si convinse che non presentava il minimo sintomo di pazzia.

— Confessi: chi è lei? — chiese Ivan con voce sorda.

Il forestiero s’imbronciò, gli diede un’occhiata come se lo vedesse per la prima volta in vita sua, e rispose con ostilità:

— Non capire… non parlare russo…

— Sua eccellenza non capisce il russo, — intervenne dalla panchina il maestro di cappella, benché nessuno gli avesse chiesto di spiegare le parole del forestiero.

— La smetta di fingere! — disse minaccioso Ivan, e si sentí rimescolare la pancia. — Un attimo fa, lei parlava russo alla perfezione. Lei non è tedesco né professore! Lei è un assassino e una spia!… Fuori i documenti! — urlò infuriato Ivan.

L’enigmatico professore torse con un senso di ripugnanza la bocca già storta, e si strinse nelle spalle.

— Signore! — s’intrufolò di nuovo il disgustoso maestro di cappella. — Perché disturba un turista straniero? Ne risponderà di fronte alla legge!

Il sospetto professore assunse un’espressione altera, si voltò e piantò in asso Ivan. Il poeta non sapeva che pesci pigliare. Ansimando, si rivolse al maestro di cappella:

— Ehi, signore, mi aiuti a fermare un criminale! Lei ha l’obbligo di farlo!

Il maestro di cappella si animò al massimo, balzò in piedi e urlo:

— Quale criminale? Dov’è? Un criminale straniero? — i suoi occhietti brillarono di allegria. — Quello? Se è un criminale, per prima cosa bisogna urlare «Aiuto!» Se no, scappa. Dai, insieme! — e spalancò le fauci.

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