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Confuso, Ivan diede retta al maestro di cappella buontempone e gridò: «Aiuto!», ma l’altro lo ingannò e non gridò niente.

L’isolato urlo rauco di Ivan non diede buoni risultati. Due ragazze si scansarono, ed egli udí la parola: «Ubriaco».

— Ah, sei suo complice? — gridò Ivan arrabbiandosi. Mi stai prendendo in giro? Lasciami passare!

Ivan si slanciò a destra, e anche il maestro di cappella si slanciò a destra, Ivan si slanciò a sinistra, e altrettanto fece quel mascalzone.

— Lo fai apposta a starmi tra i piedi? — gridò Ivan infuriandosi. — Consegnerò pure te alla polizia!

Ivan tentò di afferrare quel farabutto per una manica, ma mancò il colpo e non prese un bel nulla: sembrava che la terra lo avesse inghiottito.

Ivan lanciò un’esclamazione, guardò davanti a sé e vide l’odioso sconosciuto. Il professore si trovava già presso l’uscita che dà sul vicolo Patriarscij, e non era solo. Il piú che sospettabile maestro di cappella aveva fatto in tempo a unirsi a lui. Ma non era ancora tutto. Il terzo di quella compagnia era un gatto sbucato da chi sa dove, grosso come un maiale, nero come il carbone o come un corvo, con tremendi baffi da cavalleggero. Il terzetto avanzava verso il Patriarscij, e il gatto camminava sulle zampe posteriori.

Ivan si precipitò dietro ai malfattori e si convinse subito che raggiungerli sarebbe stato difficilissimo.

Il terzetto attraversò fulmineo il vicolo e si ritrovò sulla Spiridonovka. Per quanto Ivan affrettasse il passo, la distanza tra lui e gli inseguiti non diminuiva affatto. Non fece in tempo a riaversi che, dopo la calma Spiridonovka, si ritrovò alle Porte Nikitskie, dove aumentò lo svantaggio a causa della calca. Per di piú, a questo punto la banda dei criminali decise di mettere in atto la classica mossa banditesca di sparpagliarsi in varie direzioni.

Con grande agilità il maestro di cappella si intrufolò in un autobus in corsa che volava verso la piazza dell’Arbat e si dileguò. Avendo perso uno degli inseguiti, Ivan concentrò la sua attenzione sul gatto, e vide quello strano animale avvicinarsi al predellino del vagone di testa del tram A immobile alla fermata, spingere via con insolenza una donna, afferrare la maniglia e tentare perfino di dare una moneta da dieci copeche alla bigliettaia attraverso un finestrino aperto per l’afa.

Il comportamento del gatto sbalordí talmente Ivan da lasciarlo immobile davanti alla drogheria sull’angolo; e subito una seconda volta, ma con molta piú forza, egli fu sbalordito dal comportamento della bigliettaia. Questa, non appena vide il gatto che saliva sul tram, gridò con una rabbia che la scuoteva tutta:

— È vietato ai gatti! È vietato portare gatti! Passa via! Scendi, se no chiamo la polizia!

Né la bigliettaia né i passeggeri furono colpiti dalla cosa principale: non dal fatto che un gatto salisse sul tram, questo poteva ancora passare, ma dal fatto che volesse pagare il biglietto!

Il gatto si dimostrò animale non soltanto solvibile, ma anche disciplinato. Alla prima sgridata della bigliettaia cessò l’attacco, si staccò dal predellino e si sedette alla fermata, soffregandosi i baffi con la monetina. Ma non appena la bigliettaia diede il segnale e il tram si mosse, il gatto si comportò come chiunque sia cacciato da un tram, sul quale deve viaggiare per forza. Dopo essersi lasciato passare davanti tutte e tre le vetture, balzò sulla parte posteriore dell’ultima, si afferrò con la zampa a un tubo che usciva dal veicolo e filò via, economizzando in tal modo il prezzo della corsa.

Per colpa di quello sporco gatto, Ivan per poco non perdeva il principale dei tre, il professore. Ma per fortuna quello non fece in tempo a tagliare la corda: Ivan vide il berretto grigio emergere tra la folla, all’inizio della Bol’saja Nikitskaja, ora via Herzen. In un batter d’occhio vi arrivò anche lui. Ma senza alcun successo. Il poeta affrettò il passo, poi si mise a trottare, urtando i passanti, eppure non riuscí ad avvicinarsi al professore nemmeno di un centimetro.

Per quanto Ivan fosse sconvolto, pure fu colpito dalla velocità soprannaturale con cui si svolgeva l’inseguimento. Non erano ancora passati venti secondi dalle Porte Nikitskie che già lo accecavano le luci dell’Arbat. Ancora qualche secondo, ed ecco un vicolo buio dai marciapiedi sbilenchi, dove Ivan Nikolaevič cadde facendosi male al ginocchio. Di nuovo un viale illuminato: via Kropotkin, poi un vicolo, poi l’Ostozenka, ancora un vicolo, squallido, brutto e male illuminato. Proprio qui Ivan Nikolaevič perse in modo definitivo colui che stava inseguendo. Il professore era scomparso.

Ivan Nikolaevič rimase perplesso, ma non a lungo, perché di colpo capí che il professore doveva per forza trovarsi nella casa numero 13 e, senza fallo, nell’appartamento numero 47.

Ivan Nikolaevič irruppe nell’androne, volò al secondo piano, trovò subito l’appartamento e suonò con impazienza. Non dovette aspettare a lungo. La porta gli fu aperta da una bimbetta sui cinque anni che se ne andò via subito senza chiedergli niente.

L’enorme anticamera, estremamente trascurata, era illuminata debolmente da una minuscola lampadina a filamento di carbone appesa sotto l’alto soffitto nero di sporcizia; al muro era agganciata una bicicletta senza gomme; c’era un’enorme cassapanca rivestita di ferro, e sul palchetto sopra l’attaccapanni si trovava un berretto invernale coi lunghi paraorecchie penzolanti. Dietro una delle porte, una rimbombante voce maschile urlava iraconda dei versi nell’apparecchio radiofonico.

Ivan Nikolaevič non fu per niente imbarazzato da quell’ambiente sconosciuto e si diresse verso il corridoio, ragionando cosí: «Si è certamente nascosto nel bagno». Il corridoio era buio. Dopo aver urtato piú volte contro le pareti, Ivan vide sotto una porta una debole striscia di luce, trovò a tastoni la maniglia e le diede un leggero strappo. Il gancio saltò via, Ivan si ritrovò proprio nel bagno e pensò di aver avuto fortuna.

Però non tanta quanta occorreva! Un’ondata di caldo umido lo investí e, alla luce delle braci accese nello scaldabagno, egli vide grossi tini appesi alle pareti, e la vasca coperta di orrende macchie nere per lo smalto saltato via. Bene, in quella vasca stava in piedi una signora nuda, tutta insaponata e con una spugna in mano. Quando Ivan fece irruzione, essa strizzò gli occhi come fanno i miopi, e scambiandolo per un altro in quell’infernale illuminazione, disse, con voce sommessa e allegra:

— Kiriuscka! Non faccia lo stupido! È impazzito?… Fëdor Ivanovi sta per rientrare. Esca subito! — e minacciò Ivan con la spugna.

Si trattava evidentemente di un equivoco, e la colpa, naturalmente, era di Ivan Nikolaevič. Ma lui non volle riconoscerlo e, dopo aver esclamato con riprovazione: «Svergognata…», si ritrovò d’un tratto in cucina. Non vi era nessuno, e nella penombra stavano silenziosi sulla stufa una decina di fornelli a petrolio spenti. Un unico raggio di luna, filtrando attraverso la finestra polverosa, non lavata da anni, illuminava parcamente l’angolo dove, coperta di ragnatele e polvere, era appesa un’icona dimenticata, dietro la cui cornice spuntavano le estremità di due ceri nuziali. Sotto la grande icona ce n’era un’altra, di carta, attaccata con uno spillo.

Nessuno sa quale pensiero dominasse Ivan in quel momento, fatto sta che, prima di fuggire dall’ingresso di servizio, si appropriò di uno dei due ceri, nonché della piccola icona di carta. Con quegli oggetti, egli abbandonò l’alloggio sconosciuto, borbottando qualcosa, vergognandosi al pensiero di quello che era successo nel bagno, e cercando involontariamente d’indovinare chi potesse essere quell’insolente Kirjuska, e se fosse lui il proprietario di quell’antipatico berretto coi paraorecchie.

Nel vicolo deserto e desolato il poeta si voltò per cercare il fuggiasco, ma non se ne vedeva l’ombra. Ivan disse allora con fermezza a se stesso:

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