— Ehi, Kanavkin… — disse il presentatore con tono che era di rimprovero e di affabilità, — e io che la stavo lodando! È partito bene, e a un tratto si ferma! È un assurdo, Kanavkin! Ma se ho appena parlato degli occhi! Si vede che la zia ne ha. Ma perché lei ci tormenta inutilmente? — Ne ha! — esclamò baldanzoso Kanavkin.
— Bravo! — gridò il presentatore.
— Bravo! — ululò spaventosamente la sala.
Quando fu tornato il silenzio, il presentatore si congratulò con Kanavkin, gli strinse la mano, gli propose di portarlo in macchina a casa sua in città, e ordinò a qualcuno tra le quinte di andare con la stessa macchina a prendere la zia per pregarla di intervenire nel programma del teatro femminile.
— Già, volevo chiedere, la zia non le ha detto dove nasconde i suoi? — s’informò il presentatore, offrendo amabilmente a Kanavkin una sigaretta e un fiammifero acceso. Quello, accendendo la sigaretta, sorrise con una certa aria malinconica.
— Ci credo, ci credo, — rispose l’attore con un sospiro, — quella vecchia spilorcia non solo al nipote, ma neanche al diavolo lo direbbe! Be’, cercheremo di risvegliare in lei sentimenti umani. Può darsi che non tutte le corde siano marcite nella sua animuccia di strozzina. Tante cose, Kanavkin.
Felice, Kanavkin se ne andò. L’attore s’informò se vi fossero altri presenti desiderosi di consegnare la valuta, ma in risposta ebbe solo silenzio.
— Cervelli bislacchi, parola d’onore! — disse l’attore stringendosi nelle spalle, e il sipario lo nascose.
Le lampade si spensero, per un po’ di tempo fu buio, e da lontano giungeva una nervosa voce tenorile che cantava:
Vi giacciono mucchi d’oro e mi appartengono…
Poi giunse per due volte, chi sa da dove, un sordo fragore di applausi.
— Nel teatro femminile, una signora sta consegnando, — disse inaspettatamente il barbuto vicino di Nikanor Ivanovič, e con un sospiro aggiunse: — Eh, se non fosse per le mie oche!… Io, caro mio, a Ljanozovo ho delle oche da combattimento… ho paura che senza di me crepino. È un uccello battagliero, delicato, che ha bisogno di cure… Eh, se non fosse per le oche!… Non è con Puskin che mi fanno impressione… — e sospirò di nuovo.
Poi la sala s’illuminò, e Nikanor Ivanovič sognò che da tutte le porte sbucavano cuochi con berretti bianchi e mestoli in mano. Degli aiuti-cuochi portarono in sala un bidone di minestra e un tavolino con pane nero affettato. Gli spettatori si animarono. Gli allegri cuochi guizzavano tra gli spettatori, versando la minestra in scodelle e distribuendo il pane.
— Pranzate, ragazzi! — gridavano i cuochi, — e consegnate la valuta! Perché state qui a perdere tempo? Che gusto a mandar giú questa sbobba! Andate a casa vostra, vuotate un bicchierino, ci mangiate sopra e subito vi sentite bene!
— Tu, padre, che ci stai a fare qui? — si rivolse direttamente a Nikanor Ivanovič un cuoco grasso con il collo purpureo porgendogli una scodella, dove nel liquido galleggiava solitaria una foglia di cavolo.
— Non ne ho, non ne ho! — urlò Nikanor Ivanovič con voce terribile, — lo vuoi capire che non ne ho!
— Non ne hai? — ringhiò il cuoco con minacciosa voce di basso, — non ne hai? — chiese con tenera voce femminile, — non ne hai, non ne hai! — mormorò tranquillizzante trasformandosi nell’infermiera Praskov’ja Fëdorovna.
Quella stava delicatamente scuotendo per una spalla Nikanor Ivanovič che gemeva nel sonno. Allora si dissolsero i cuochi e crollò il teatro con il sipario. Attraverso le lacrime Nikanor Ivanovič vide la sua camera nella clinica, e due uomini in camice bianco, ma non erano i disinvolti cuochi che ficcavano il naso negli affari degli altri per dare consigli, ma il dottore e la stessa Praskov’ja Fëdorovna che in mano teneva non una scodella, ma un piattino coperto di garza, con una siringa.
— Ma guardate che roba, — diceva amaramente Nikanor Ivanovič mentre gli facevano l’iniezione, — non ne ho, punto e basta. Gliela dia Puskin, la valuta. Non ne ho!
— Non ne ha, non ne ha, — lo calmava la buona Praskov’ja Fëdorovna, — se non ne ha, non se ne parli piú.
Nikanor Ivanovič si sentí meglio dopo l’iniezione, e si addormentò senza piú sognare.
Ma a causa delle sue grida, l’irrequietezza si trasmise alla stanza 120, il cui ricoverato si svegliò e cominciò a cercare la propria testa; nella 118, il Maestro sconosciuto cominciò ad agitarsi e a torcersi le mani in un accesso di angoscia, mentre guardava la luna e ricordava l’ultima amara notte autunnale della sua vita, la striscia di luce sotto la porta dello scantinato e i capelli disfatti.
Attraverso il balcone, l’inquietudine passò dalla 118 alla stanza di Ivan, ed egli si svegliò e cominciò a piangere.
Ma il medico calmò presto tutti gli irrequieti malati di mente ed essi si addormentarono. L’ultimo ad assopirsi fu Ivan, quando già albeggiava sul fiume. Dopo i medicinali che avevano inebriato il suo corpo, la calma lo avvolse come un’ondata e lo ricoprí. Il suo corpo si alleggerí, e sul suo capo come una tiepida brezza soffiò la sonnolenza. Si addormentò, e l’ultima cosa che udí da sveglio fu il cinguettio antelucano degli uccelli nel bosco. Ma ben presto essi tacquero, ed egli sognò che il sole si stava già abbassando sul Calvario e il monte era circondato da un duplice cordone di truppe…
CAPITOLO SEDICESIMO
Il supplizio
Il sole si stava già abbassando sul Calvario, e il monte era circondato da un duplice cordone di truppe.
La coorte alaria di cavalleria, che aveva tagliato la strada al procuratore verso mezzogiorno, si diresse al trotto in direzione della Porta di Hebron. La strada le era già stata preparata. I fanti della coorte di Cappadocia avevano premuto ai lati l’assembramento di uomini, muli e cammelli, e trottando e sollevando fino al cielo colonne bianche di polvere, i cavalieri giunsero all’incrocio di due strade: quella del sud, che portava a Betfage, e quella di nord-ovest. Gli stessi cappadoci erano disseminati ai bordi della strada e ne avevano tempestivamente cacciato da parte tutte le carovane che si affrettavano a raggiungere Jerushalajim per la festa. Folle di pellegrini stavano dietro ai soldati, avendo abbandonato le provvisorie tende a righe piantate direttamente sull’erba. Dopo aver fatto circa un chilometro, l’alaria superò la seconda coorte della Legione Fulminante e, dopo aver percorso un altro chilometro giunse per prima ai piedi del Calvario. Qui si appiedò. Il comandante la divise in plotoni, che circondarono tutta la base della bassa collina, lasciando libera soltanto la via di accesso dalla strada di Giaffa.
Poco tempo dopo giunse alla collina la seconda coorte, e prese posizione piú in alto, accerchiandone la cima.
Infine giunse la centuria al comando di Marco l’Ammazzatopi. Camminava, allungata su due file ai lati della strada e tra queste, scortati dalla guardia segreta, avanzavano su un carro i tre condannati con delle assicelle bianche al collo, su ognuna delle quali era scritto «ladrone e ribelle» nelle due lingue, aramaica e greca.
Il carro dei condannati era seguito da altri, carichi di pali squadrati di fresco con traverse, di corde, di pale, di secchi e di asce. Su questi carri si trovavano i sei boia. In coda cavalcavano il centurione Marco, il capo delle guardie del tempio di Jerushalajim e l’uomo col cappuccio con cui Pilato aveva avuto un fugace abboccamento nella stanza oscurata del palazzo.
La processione si chiudeva con una fila di soldati, e dietro veniva una folla di circa duemila curiosi che non avevano avuto paura di quel caldo infernale e desideravano assistere all’interessante spettacolo. A questi curiosi della città si erano aggiunti ora i pellegrini curiosi, liberamente accolti nella coda della processione. Il corteo prese a salire sul Calvario, accompagnato dalle grida acute degli araldi che accompagnavano la colonna e gridavano ciò che Pilato aveva proclamato a mezzogiorno circa.