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Abadonna stava immobile.

— Non potrebbe togliersi gli occhiali per un attimo? domandò Margherita, stringendosi a Woland e trasalendo ma solo piú di curiosità.

— No, questo non è possibile, — rispose gravemente Woland; fece segno ad Abadonna di andarsene, ed egli scomparve. — Che vuoi dire, Azazello?

— Messere, — rispose Azazello, — mi permetta di dire che in casa nostra ci sono due estranei: una bella ragazza che piagnucola e supplica che la lascino rimanere con la sua signora, e inoltre, con licenza parlando, c’è con lei il suo verro.

— Si comportano in modo strano, le belle ragazze! — osservò Woland.

— E Nataša, Nataša! — esclamò Margherita.

— Be’, rimanga con la sua signora. Ma, in quanto al verro, sia mandato dai cuochi.

— Perché lo scannino? — gridò Margherita, spaventata. — Per carità, Messere, è Nikolaj Ivanovič, l’inquilino del piano di sotto. Vede, c’è stato un equivoco, Nataša l’ha spalmato di crema…

— Ma permetta, — disse Woland, — perché diavolo e chi dovrebbe scannarlo? Stia un po’ insieme con i cuochi, e basta. Ammetterà che non posso mica lasciarlo entrare nella sala da ballo.

— Già, questo poi… — soggiunse Azazello, e annunziò: La mezzanotte s’avvicina, Messere.

— Ah, bene — . Woland si rivolse a Margherita: — La prego dunque… La ringrazio in anticipo. Non si smarrisca e non abbia paura di nulla. Non beva nulla, salvo acqua, se no s’infiacchirà e non ce la farà piú. È ora!

Margherita si alzò dal tappetino e allora Korov’ev apparve nel vano della porta.

CAPITOLO VENTITREESIMO

Il gran ballo da Satana

La mezzanotte s’avvicinava, bisognava affrettarsi. Margherita vedeva confusamente quanto la circondava. Le rimasero in mente le candele e la vasca di pietre preziose. Quando si fu messa in piedi sul fondo di questa vasca, Hella e Nataša, che l’aiutava, le versarono addosso un liquido caldo, denso e rosso. Margherita sentí un sapore di sale sulle labbra e comprese che la lavavano col sangue. Il manto insanguinato fu sostituito da un altro, spesso, trasparente, roseo, e l’olio di rose fece venire il capogiro a Margherita. Poi fu messa su un letto di cristallo e con certe grandi foglie verdi cominciarono a frizionarla fino a lustrarle la pelle.

In quel momento il gatto entrò a precipizio e si diede ad aiutare. Si accoccolò ai piedi di Margherita e si mise a strofinarglieli con un’aria come se lustrasse le scarpe per la strada.

Margherita non ricorda chi le facesse le scarpette con petali di rosa pallida né come queste scarpette si affibbiassero da sole con fibbie d’oro. Una forza ignota la tirò su e la mise davanti allo specchio e nei suoi capelli sfolgorò una corona regale di diamanti. Comparve Korov’ev e le appese sul petto, attaccata a una grossa catena, la pesante effigie di un can barbone nero, in una cornice ovale. Questo monile sovraffaticò la regina. La catena cominciò subito a sfregarle il collo, l’effigie la faceva piegare in due. Qualcosa però compensò Margherita del disagio cagionatole dalla catena e dal can barbone nero, cioè la deferenza con la quale Korov’ev e Behemoth cominciarono a trattarla.

— Niente, niente, niente! — mormorò Korov’ev quando furono alla porta della stanza con la vasca. — Non ci si può far niente, bisogna, bisogna, bisogna… Mi permetta, regina, di darle un ultimo consiglio. Ci saranno invitati di vario genere, oh, molto vario, ma a nessuno, regina Margot, a nessuno nessuna preferenza! Anche se qualcuno non le andrà a genio… capisco che lei, naturalmente, non lo darà a vedere, no, no, nemmeno da pensarci! Ma accorgersene, accorgersene sul momento! Bisogna volergli bene, volergli bene, regina! Di questo la padrona di casa sarà ricompensata al centuplo. E un’altra cosa: non trascurare nessuno! Almeno un sorrisetto, se non ci sarà tempo di buttar là due parole, almeno girare un pochino il capo! Tutto quel che vuole, ma non la mancanza di riguardo, questo li farebbe intristire…

Allora Margherita, scortata da Korov’ev e Behemoth, uscí dalla vasca per avanzare in una completa oscurità.

— Io, io, — sussurrò il gatto, — lo darò io il segnale!

— Dài! — rispose nel buio Korov’ev.

— Il ballo!!! — strillò il gatto con voce acuta, e subito Margherita mandò un grido e per qualche secondo chiuse gli occhi. Il ballo le era piombato addosso di colpo, sotto forma di luce e insieme di suono e di odore. Trasportata a braccetto da Korov’ev, Margherita si vide in una foresta tropicale. Pappagalli dal petto rosso e dalla coda verde s’aggrappavano alle liane, saltellavano dall’una all’altra e con voce assordante gridavano: — Felicissimo! — Ma la foresta terminò presto e al calore afoso che vi regnava come in un bagno, subentrò subito la frescura della sala da ballo con colonne di una pietra giallognola scintillante. Questa sala, come anche la foresta, era completamente deserta, e soltanto ai piedi delle colonne stavano ritti dei negri nudi con bende d’argento in testa. Per l’emozione, le loro facce si fecero di un color bruno sporco quando Margherita entrò a precipizio nella sala col suo seguito in cui Azazello s’era inserito non si sa come. Allora Korov’ev lasciò andare il braccio di Margherita e sussurrò:

— Dritto ai tulipani!

Una bassa parete di tulipani bianchi sorse davanti a Margherita; di là da questa essa vide innumerevoli luci sotto piccoli paralumi e davanti ad essi i petti bianchi e le spalle nere di uomini in marsina. Margherita comprese allora donde proveniva la musica da ballo. Le piombò addosso il muggito delle trombe di sotto al quale spiccò il volo l’arcata dei violini che si riversò sul suo corpo come fosse sangue. L’orchestra di una cinquantina di persone eseguiva una polacca.

L’uomo in marsina che stava in alto di fronte ai suonatori, scorgendo Margherita impallidí, sorrise e d’un tratto, con un largo gesto, fece alzare tutti gli artisti. Senza interrompere neppure per un attimo la musica, l’orchestra, in piedi, immerse Margherita nei suoni. L’uomo sul podio volse le spalle ai suonatori e s’inchinò profondamente, allargando le braccia, e Margherita, sorridendo, lo salutò con la mano.

— No, è poco, è poco, — sussurrò Korov’ev, — egli non chiuderà occhio questa notte. Gli gridi: «La saluto, re dei valzer!»

Margherita lo gridò e si stupí che la sua voce, squillante come una campana, soverchiasse il clamore dell’orchestra. L’uomo sussultò dalla felicità, si portò la mano sinistra al petto, continuando con la destra a dirigere con una bacchetta bianca.

— È poco, è poco, — sussurrò Korov’ev, — guardi a sinistra, verso i primi violini, e saluti col capo in modo che ognuno pensi che lei l’ha riconosciuto in particolare. Qui non vi sono che celebrità mondiali. Vede, quello là dietro al primo leggio, è Vieuxtemps!… Cosí, benissimo…

E adesso andiamo avanti!

— Chi è il direttore? — chiese Margherita, correndo via.

— Johann Strauss! — gridò il gatto. — E m’impicchino pure a una liana nella foresta tropicale se in un ballo ha mai suonato un’orchestra come questa! Sono stato io a convocarla! E, noti bene, non c’è stato nessuno che si sia ammalato e nessuno che abbia rifiutato!

Nella sala seguente non v’erano colonne, al loro posto stavano da un lato pareti di rose rosse, rosa, bianco latte e dall’altro un muro di camelie giapponesi doppie. Fra queste s’alzavano già, sfrigolando, degli zampilli e lo champagne spumeggiava in tre vasche, la prima di un viola diafano, la seconda di rubino e la terza di cristallo. Accanto ad esse dei negri in bende scarlatte si affannavano a riempire con mestoli d’argento le coppe piatte. Nella parete di rose c’era una breccia, in essa un palco sul quale si scalmanava un individuo in marsina rossa a coda di rondine. Di fronte a lui rimbombava un jazz intollerabilmente forte. Non appena scorse Margherita, il direttore si piegò davanti a lei fino a sfiorare il palco con le mani, poi si raddrizzò e gridò con voce acuta:

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