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Sul molo, un tale fumava e sputava in mare. Guardò Stepa con occhi attoniti e smise di sputare.

Allora Stepa la fece bella: si inginocchiò davanti al fumatore sconosciuto e disse:

— La supplico, mi dica, che città è questa?

— Però! — disse con indifferenza il fumatore.

— Non sono ubriaco, — rispose rauco Stepa, — mi è successo qualcosa… sono ammalato… Dove sono? Che città è questa?

— Be’, Jalta…

Stepa sospirò lievemente, si rovesciò su un fianco, batté la testa sui caldi massi del molo. Aveva perso i sensi.

CAPITOLO OTTAVO

Il duello tra il professore e il poeta

Verso le undici e mezzo del mattino, cioè nel preciso

istante in cui Stepa, a Jalta, perdeva i sensi, questi tornavano a Ivan Nikolaevič Bezdomnyj, che si risvegliò dopo un lungo e profondo sonno. Per qualche tempo cercò di capire come fosse finito in una stanza sconosciuta, con le pareti bianche, lo stupefacente tavolino da notte di metallo chiaro e la tapparella bianca, dietro la quale si percepiva la presenza del sole.

Ivan scosse la testa, si convinse che non gli doleva, e si ricordò che si trovava in una clinica. Questo ricordo si trascinò dietro quello della fine di Berlioz, ma adesso quel pensiero non provocò in lui un forte turbamento. Dopo aver ben dormito, era diventato piú calmo e cominciava a ragionare con piú chiarezza. Rimase qualche tempo immobile nel pulitissimo, morbido e comodo letto a molle, poi scoprí un campanello vicino. Con la sua abitudine di toccare tutti gli oggetti senza necessità, Ivan lo premette. Si aspettava un suono o un avvenimento conseguente all’aver premuto il pulsante, ma successe qualcosa di completamente diverso.

Ai piedi del suo letto si accese un cilindro smerigliato, su cui era scritto: «Bere». Dopo qualche istante, il cilindro cominciò a ruotare finché non emerse la scritta: «Infermiera» S’intende che l’ingegnoso cilindro sorprese Ivan.

La scritta «Infermiera» fu sostituita da quella «Chiamate il dottore».

— Hm… — proferí Ivan, non sapendo che fare con quel cilindro. Ma lí il caso lo aiutò. Ivan premette il pulsante per la seconda volta alla parola «Medico assistente». Il cilindro risuonò piano come per rispondergli, si fermò, si spense, e nella stanza entrò una donna pienotta, simpatica, dal camice immacolato, che disse a Ivan:

— Buon giorno!

Ivan non rispose, perché riteneva quel saluto fuori posto nelle condizioni date. Infatti, avevano rinchiuso un uomo sano in un ospedale, e facevano anche finta che si trattasse di una cosa normalissima!

Nel frattempo la donna, senza perdere la placida espressione del volto, premendo un pulsante, aveva alzato la tapparella, e attraverso un’inferriata leggera dai larghi interstizi, che arrivava fino a terra, nella stanza si riversò il sole. Dietro l’inferriata si vide un balcone, dietro ad esso la riva di un fiume tortuoso, e sull’altra sponda una gaia pineta.

— Prego, venga a fare il bagno, — lo invitò la donna, e sotto le sue mani si spalancò la parete interna, dietro la quale apparve un bagno e un gabinetto magnificamente attrezzato.

Benché avesse deciso di non parlare con la donna, Ivan non si trattenne e, vedendo che l’acqua sgorgava di getto nella vasca da un luccicante rubinetto, disse con ironia:

— Ma guarda! Come al Métropole!…

— Oh no, — rispose con orgoglio la donna, — molto meglio! Un’attrezzatura cosí non esiste neppure all’estero. Scienziati e dottori vengono appositamente a visitare la nostra clinica. Da noi ogni giorno ci sono dei turisti stranieri.

Alle parole «turisti stranieri», Ivan ricordò subito il consulente del giorno prima. Si incupí, diede un’occhiata di traverso e disse:

— Turisti stranieri… Come li adorate tutti, questi turisti stranieri! Eppure, tra di loro, ce ne sono di tutte le risme. Io, per esempio, ieri ne ho conosciuto uno che te lo raccomando!

Ci mancò poco che si mettesse a raccontare di Ponzio Pilato, ma si trattenne, comprendendo che la donna di quei racconti se ne infischiava e non gli poteva essere di alcun aiuto.

A Ivan Nikolaevič, quando si fu lavato, fu dato lí per lí tutto quello che è necessario a un uomo dopo il bagno: una camicia stirata, mutande, calzini. Ma non basta: aprendo la porta di un armadietto, la donna ne indicò l’interno, e chiese:

— Che cosa preferisce? Pigiama o vestaglia?

Ospite forzato di quella dimora, Ivan per poco non batté le mani davanti alla disinvoltura della donna e puntò il dito verso un pigiama di flanella ponsò.

Indi fu condotto per un corridoio deserto e silenzioso, e introdotto in uno studio di enormi dimensioni. Ivan, che aveva deciso di considerare con ironia tutto quello che c’era in quell’edificio mirabilmente attrezzato, battezzò subito, tra sé, quello studio «reparto culinario».

C’erano motivi per farlo. Vi erano armadi e armadietti di vetro pieni di lucidi strumenti nichelati. Vi erano poltrone di foggia straordinariamente complessa, lampade panciute con paralumi splendenti, una quantità di vasetti, becchi di gas, fili elettrici, e apparecchi assolutamente sconosciuti a tutti.

Nello studio si occuparono in tre di Ivan: due donne e un uomo, tutti vestiti di bianco. Per prima cosa, lo condussero in un angolo, a un tavolo, con l’evidente scopo di farlo cantare.

Ivan studiò la situazione. Tre vie gli si aprivano davanti. La prima gli sembrava particolarmente seducente: gettarsi contro quelle lampade e quegli oggettini bizzarri, spaccare tutto ed esprimere cosí la sua protesta per essere stato trattenuto ingiustamente. Ma l’Ivan odierno era ormai molto diverso dall’Ivan del giorno innanzi, e la prima via gli sembrò dubbia: magari in loro si sarebbe radicata l’idea che lui era un pazzo furioso. Perciò la respinse. Ce n’era una seconda: cominciare subito a parlare del consulente e di Ponzio Pilato. Però l’esperienza passata dimostrava che a quel racconto non prestavano fede, oppure lo interpretavano in modo svisato. Perciò Ivan rinunciò anche a questa via, e scelse la terza: chiudersi in un orgoglioso silenzio.

Non riuscí ad attuare appieno questo proposito, e, volente o nolente, dovette rispondere a tutta una serie di domande, sia pure con brevi e tetre parole. Gli chiesero proprio tutto quello che riguardava la sua vita passata, fino alla scarlattina che aveva fatto una quindicina d’anni prima. Dopo aver riempito un’intera pagina su Ivan, voltarono il foglio, e la donna in bianco passò a fargli domande sui parenti. Cominciò una litania: chi era morto, quando e di che, se beveva, se aveva avuto malattie veneree, e via di questo passo. A conclusione, gli chiesero di raccontare gli avvenimenti che si erano svolti alla vigilia agli stagni Patriarscie, ma senza insistere molto, e non si stupirono della faccenda di Ponzio Pilato.

A questo punto, la donna cedette Ivan all’uomo, che si occupò di lui in modo diverso, senza piú fargli domande. Gli misurò la temperatura, gli sentí il polso, lo guardò negli occhi illuminandoli con una lampada. Poi in aiuto all’uomo venne l’altra donna, e Ivan fu punto alla schiena, ma non in modo doloroso, col manico di un martelletto gli tracciarono certi segni sulla pelle del petto, gli picchiettarono con dei martelletti le ginocchia, facendogli sobbalzare le gambe, gli punsero il dito per prelevarne del sangue, lo punsero alla piega del gomito, gli infilarono alle braccia strani braccialetti di gomma…

Ivan sogghignava amaramente tra sé e pensava che tutto si era risolto in modo sciocco e strano. Ma pensate! Voleva avvertire tutti del pericolo rappresentato dal misterioso consulente, si preparava a catturarlo ed era riuscito soltanto a finire in un misterioso studio medico per raccontare sciocchezze sullo zio Fëdor che si sbronzava a Vologda. Che situazione intollerabilmente stupida!

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