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Berlioz spalancò gli occhi. «A colazione… con Kant?…Che assurdità sta dicendo?», pensò.

— Però, — continuava lo straniero, per nulla turbato dallo stupore di Berlioz, e rivolgendosi al poeta, — non è possibile spedirlo a Solovki per il semplice motivo che da oltre cento anni egli si trova in luoghi assai piú remoti, e trarlo di là è assolutamente impossibile, glielo assicuro.

— Peccato! — replicò il poeta attaccabrighe.

— È proprio un peccato, — confermò lo sconosciuto facendo brillare l’occhio, e continuò: — Ma ecco il problema che mi preoccupa: se dio non esiste, chi dirige la vita umana e tutto l’ordine sulla terra?

— È l’uomo che dirige, — si affrettò a rispondere irritato Bezdomnyj a questa domanda che, bisogna riconoscerlo, non era molto chiara.

— Mi perdoni, — replicò con dolcezza lo sconosciuto, per dirigere bisogna avere un piano esatto per un periodo abbastanza lungo. Mi permetta perciò di chiederle come può l’uomo dirigere, se non solo gli manca la possibilità di fare un piano perfino per un periodo ridicolmente breve, come, diciamo, un millennio, ma non è neppure in grado di rispondere del proprio domani!

— Del resto, — qui lo sconosciuto si voltò verso Berlioz, — immagini che lei si metta a dirigere, a disporre di sé e degli altri, che cominci, come dire, a prenderci gusto, ma a un tratto lei scopre di avere, he… he… un sarcoma al polmone — Qui lo sconosciuto sorrise dolcemente, come se il pensiero di un sarcoma al polmone gli facesse piacere, sí, un sarcoma… — ripeté questa sonora parola socchiudendo gli occhi come un gatto, — e la sua attività direttiva è bell’e finita!

— Nessun destino, eccetto il proprio, la interessa piú. I parenti cominciano a mentirle. Lei, sentendo che c’è qualcosa che non va, si precipita dai migliori medici, poi dai ciarlatani, e magari dalle chiromanti. Sia la prima cosa che la seconda e la terza sono, lei capisce, assolutamente insensate. E tutto finisce in modo tragico: colui che, ancora poco fa, credeva di dirigere qualcosa, è steso immobile in una cassa di legno, e le persone circostanti, comprendendo che dal defunto non si cava piú alcun costrutto, lo cremano in un forno.

— Ma succede anche di peggio: uno magari ha appena deciso di andare a Kislovodsk, — qui il forestiero guardò Berlioz strizzando gli occhi, — una cosuccia da nulla, si direbbe, ma non riesce a fare neppure quella, perché scivola e va a finire sotto un tram! Non mi vorrà mica dire che è stato lui a dirigere se stesso in quel modo! Non sarebbe piú giusto pensare che è stato qualcun altro a dirigerlo cosí? Qui lo sconosciuto emise una strana risatina.

Berlioz aveva ascoltato con grande attenzione lo sgradevole racconto sul sarcoma e sul tram, e certi pensieri allarmanti cominciavano a tormentarlo. «Non è un forestiero… non è un forestiero… — pensava, — è un tipo stranissimo… ma insomma chi mai può essere?…»

— Vedo che lei ha voglia di fumare, — disse a un tratto lo sconosciuto a Bezdomnyj. — Che sigarette preferisce?

— Perché, ne ha di diversi tipi? — chiese cupo il poeta che aveva terminato le sue.

— Quali preferisce? — ripeté lo sconosciuto.

— Be’, La Nostra Marca, — rispose con astio Bezdomnyi.

Lo sconosciuto tirò immediatamente fuori dalla tasca un portasigarette e lo porse a Bezdomnyj.

— La Nostra Marca.

Sia il direttore sia il poeta furono sbalorditi non tanto dal fatto che nel portasigarette vi fosse proprio La Nostra Marca quanto dal portasigarette stesso. Era enorme, d’oro massiccio, e quando venne aperto, sul suo coperchio scintillò d’un fuoco bianco e azzurro un triangolo di brillanti.

Qui i letterati ebbero pensieri differenti. Berlioz: «No è uno straniero!», e Bezdomnyj: «Il diavolo se lo porti. Che roba!…»

Il poeta e il proprietario del portasigarette cominciarono a fumare, mentre Berlioz, che non era un fumatore, rifiutò.

«Bisognerà rispondergli cosí, — decise Berlioz, — sí, l’uomo è mortale, nessuno lo mette in dubbio. Ma il fatto è che…»

Però non fece in tempo a pronunciare queste parole che lo straniero riprese a parlare:

— Sí, l’uomo è mortale, ma questa sarebbe solo una mezza disgrazia. Il brutto è che a volte muore all’improvviso, è questo il guaio! E in genere non è in grado di dire che cosa farà stasera.

«Che modo assurdo d’impostare il problema…», penso Berlioz e obiettò:

— Via, adesso lei sta esagerando. So piú o meno esattamente che cosa farò stasera. Naturalmente, se mentre passo per la Bronnaja mi cade una tegola in testa…

— Una tegola, — lo interruppe gravemente lo sconosciuto, — non cadrà mai in testa a nessuno cosí, senza una ragione. In particolare, posso assicurarle che lei non corre affatto questo rischio. Lei morirà di un’altra morte.

— Forse lei sa di quale, — s’informò Berlioz con un’ironia perfettamente naturale, lasciandosi trascinare in un conversazione veramente assurda, — e me lo vorrà dire?

— Volentieri, — replicò lo sconosciuto. Misurò Berlioz con lo sguardo, come se si accingesse a fargli un vestito, borbottò tra i denti qualcosa come: «Uno, due… Mercurio è nella seconda casa… la luna ne è uscita… sei: disgrazia… sera: sette…» e annunciò con voce forte e gioiosa: — Le taglieranno la testa!

Con astio e stupore Bezdomnyj spalancò gli occhi sul disinvolto sconosciuto, mentre Berlioz chiese con un sorriso forzato:

— Chi, per la precisione? Nemici? Invasori?

— No, — rispose l’interlocutore, — una donna russa, un membro della Gioventú comunista.

— Hm… — mugolò Berlioz, irritato dallo scherzetto dello sconosciuto, — scusi, sa, ma è poco verosimile.

— Mi scusi lei, — rispose il forestiero, — ma è proprio cosí. Ah già, le volevo chiedere che cosa fa stasera, se non è un segreto?

— Non lo è. Adesso vado un momento a casa, sulla Sadovaja, poi alle dieci ci sarà una seduta al MASSOLIT, e io la presiederò.

— No, questo non è assolutamente possibile, — rispose con fermezza il forestiero.

— Perché?

— Perché, — rispose l’altro, e con gli occhi socchiusi guardò il cielo dove, presentendo la frescura della sera, uccelli neri sfrecciavano in silenzio, — Annuška ha già comprato l’olio di girasole, e non solo l’ha comprato, ma l’ha anche rovesciato. Perciò la seduta non avrà luogo.

È chiaro che a questo punto sotto i tigli subentrò il silenzio.

— Scusi, — disse dopo una pausa Berlioz, guardando il forestiero che stava sragionando, — che c’entra l’olio di girasole?… e di quale Annuška sta parlando?

— Ecco come c’entra l’olio di girasole, — prese a dire Bezdomnyj, che aveva evidentemente deciso di dichiarare guerra al non richiesto interlocutore. — Non è mai stato, per caso, in una casa di cura per malati di mente?

— Ivan!… — esclamò a bassa voce Michail Aleksandrovič.

Ma il forestiero non si offese affatto e scoppiò a ridere con molta allegria.

— Ci sono stato, e come! — esclamò, sempre ridendo, ma senza distogliere dal poeta gli occhi che non ridevano affatto. — Dove non sono stato! Peccato che io non abbia fatto in tempo a chiedere al professore che cosa sia di preciso la schizofrenia. Si informi lei stesso, Ivan Nikolaevič!

— Come fa a sapere il mio nome?

— Per carità, Ivan Nikolaevič, chi non la conosce? — Il forestiero trasse di tasca la «Literaturnaja gazeta», il numero del giorno precedente, e sulla prima pagina Ivan Nikolaevič vide la propria immagine con sotto i versi. Ma l’attestato di celebrità e popolarità che ieri ancora rallegrava il poeta, non lo rallegrò questa volta.

— Le chiedo scusa, — disse, e il suo volto s’incupí, — può aspettare un momento? Vorrei dire due parole al mio amico.

— Oh, volentieri! — esclamò lo sconosciuto. — Si sta cosí bene sotto questi tigli, e poi non ho affatto premura.

— Senti, Miša, — sussurrò il poeta, dopo aver tratto da parte Berlioz, — non è mica un turista straniero: è una spia. Un emigrato russo, che è riuscito a intrufolarsi da noi. Chiedigli i documenti, se no ci scappa…

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