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Quando fu sazia di piangere, Margherita prese i quaderni intatti e ritrovò il passo che aveva riletto prima d’incontrarsi con Azazello sotto il muro del Cremlino. Margherita non aveva voglia di dormire. Accarezzava affettuosamente il manoscritto, come s’accarezza un gatto prediletto, e lo rigirava fra le mani, esaminandolo da ogni lato, ora soffermandosi sul frontespizio, ora aprendo l’ultimo foglio. Improvvisamente l’invase il terribile pensiero che tutto ciò fosse una stregoneria, che a momenti i quaderni sarebbero scomparsi, essa si sarebbe ritrovata nella sua camera da letto nella palazzina e, svegliandosi, avrebbe dovuto andare ad annegarsi. Ma fu questo l’ultimo pensiero terribile, la ripercussione delle lunghe sofferenze che aveva patito. Nulla spariva, l’onnipotente Woland era davvero onnipotente, e finché voleva, anche fino all’alba, Margherita avrebbe potuto sfogliare i quaderni, contemplarli e baciarli e rileggere le parole:

«Le tenebre, venute dal Mediterraneo, coprirono la città odiata dal procuratore… Sí, le tenebre…»

CAPITOLO VENTICINQUESIMO

Come il procuratore tentò di salvare Giuda di Kiriat

Le tenebre venute dal Mediterraneo coprirono la città odiata dal procuratore. Scomparvero i ponti sospesi che univano il tempio con la terribile torre Antonia, calò dal cielo un abisso che sommerse gli dèi alati sopra l’ippodromo, il palazzo Asmoneo con le feritoie, i mercati, i caravanserragli, i vicoli, gli stagni… sparí Jerushalajim, la grande città, come se non fosse mai esistita. Tutto era stato inghiottito dall’oscurità che aveva spaventato quanto di vivo c’era in Jerushalajim e dintorni. La strana nuvola giunse dalla parte del mare, il giorno quattordici del mese primaverile di Nisan, verso l’imbrunire.

Si riversò col ventre sul Golgota, dove i boia si affrettavano a dare il colpo di grazia ai condannati, si riversò sul tempio di Jerushalajim, quindi strisciò in torrenti fumosi dalla collina e inondò la città bassa. Affluiva nelle finestre e cacciava la gente dalle viuzze sghembe nell’interno delle case. Non si affrettava a liberarsi della sua umidità e si liberava soltanto della sua luce. Non appena la fumosa poltiglia nera veniva squarciata dal lampo, dal buio pesto balzava su la grande massa del tempio con lo scintillante tetto squamoso. Ma si spegneva in un attimo, e il tempio s’immergeva nel baratro nero. Diverse volte ne risorse, per sprofondarvi di nuovo, e ogni scomparsa veniva accompagnata da un fragore di catastrofe.

Altri bagliori tremuli traevano dall’abisso il palazzo di Erode il Grande che si ergeva sulla collina occidentale di fronte al tempio, e paurose statue d’oro decapitate balzavano verso il cielo nero protendendo le braccia. Ma di nuovo il fuoco celeste scompariva, e pesanti rombi di tuono ricacciavano gli idoli dorati nelle tenebre.

L’acquazzone s’abbatté all’improvviso, e il temporale si trasformò in un uragano. Nello stesso posto dove, verso mezzogiorno, presso la panchina di marmo nel giardino, conversavano il procuratore e il gran sacerdote, un colpo che sembrava una cannonata spaccò un cipresso come un fuscello. Insieme allo spolverio d’acqua e alla grandine, il vento portava, sul balcone sotto le colonne, rose strappate, foglie di magnolia, ramoscelli e sabbia. L’uragano si accaniva sul giardino.

In quel momento sotto il porticato si trovava una sola persona, il procuratore.

Non sedeva sulla scranna, ma giaceva su un letto presso un tavolino coperto di cibarie e di caraffe di vino. Un altro letto, vuoto, si trovava dall’altra parte del tavolino. Ai piedi del procuratore si stendeva una pozzanghera rossa, quasi fosse di sangue, e giacevano i cocci di una caraffa. Il servo che, prima del temporale, stava apparecchiando la mensa per il procuratore, si era confuso sotto lo sguardo di questi, era agitato per non aver soddisfatto in qualcosa il padrone, e il procuratore, arrabbiatosi, aveva spaccato la caraffa sul pavimento di mosaico dicendo:

— Perché non guardi in faccia quando servi? Hai forse rubato qualcosa?

Il volto nero dell’africano divenne grigio, nei suoi occhi apparve un terrore mortale, tremò, e mancò poco che spezzasse la seconda caraffa; ma l’ira del procuratore svaní con la stessa velocità con cui era sopraggiunta. Il negro stava precipitandosi a raccogliere i cocci e asciugare la pozzanghera, ma il procuratore gli fece un cenno con la mano, e lo schiavo corse via. La pozzanghera rimase.

Adesso, durante l’uragano, lo schiavo si nascondeva presso la nicchia dov’era posta la statua di una bianca donna nuda dalla testa reclinata, temeva di farsi vedere in un momento inopportuno, ma nello stesso tempo aveva paura di lasciarsi sfuggire l’attimo in cui il procuratore l’avrebbe potuto chiamare.

Steso sul letto nella penombra causata dal temporale, il procuratore si versava da sé il vino nella coppa, beveva a lunghi sorsi, di quando in quando toccava il pane, lo spezzava in briciole, lo inghiottiva a piccoli pezzi, ogni tanto succhiava un’ostrica, masticava un limone, e beveva di nuovo.

Se non fosse stato per lo scroscio dell’acqua e per gli schianti del tuono che, sembrava, minacciavano di sprofondare il tetto del palazzo, se non fosse stato per il battito della grandine che martellava gli scalini del balcone, si sarebbe potuto udire il procuratore borbottare qualcosa, mentre parlava tra sé. E se l’instabile baluginare del fuoco celeste si fosse tramutato in una luce fissa, l’osservatore avrebbe potuto vedere che il volto del procuratore, con gli occhi infiammati dalle ultime insonnie e dal vino, esprimeva l’impazienza, e che il procuratore non guardava solo due rose bianche annegate nella pozzanghera rossa, ma volgeva costantemente la testa verso il giardino, incontro al pulviscolo d’acqua e alla sabbia, aspettando qualcuno, e aspettandolo con impazienza.

Passò del tempo, e il velo d’acqua davanti agli occhi del procuratore divenne meno fitto. Per quanto fosse stato furioso, l’uragano si stava indebolendo. I rami non scricchiolavano e non cadevano piú. I tuoni e le saette si diradavano. Su Jerushalajim non galleggiava piú un velo viola dal bordo bianco, ma una comune nuvola grigia di retroguardia. Il temporale si spostava verso il Mar Morto.

Adesso si potevano anche percepire isolati il rumore della pioggia e quello dell’acqua che precipitava per le grondaie e giú dai gradini della scala che il procuratore aveva disceso quel giorno per proclamare in piazza la sentenza. Infine risuonò anche la fontana, fino a quel momento soffocata. Il cielo si rasserenava. Nel velo grigio che fuggiva verso oriente cominciavano ad apparire finestre azzurre.

A questo punto, da lontano, irrompendo attraverso il picchiettare della pioggia ormai leggera, giunsero alle orecchie del procuratore lievi squilli di tromba e lo scalpitio di alcune centinaia di zoccoli. Udendoli il procuratore si mosse e il suo volto si animò. L’alaria ritornava dal Calvario. A giudicare dal rumore, stava attraversando quella stessa piazza dove era stata proclamata la sentenza.

Infine il procuratore udí i tanto attesi passi strascicati sulla scala che portava alla terrazza superiore del giardino proprio davanti alla loggia. Tese il collo, i suoi occhi brillarono esprimendo gioia.

Tra i due leoni di marmo apparve dapprima una testa coperta da un cappuccio, poi un uomo fradicio col mantello appiccicato al corpo. Era quello stesso che, prima della sentenza, aveva conferito a voce bassa col procuratore nella camera oscurata e che, durante il supplizio, sedeva su uno sgabello a tre piedi, giocherellando con un rametto.

Senza fare caso alle pozzanghere, l’uomo col cappuccio attraversò la terrazza del giardino, avanzò sul pavimento di mosaico della loggia e, alzando il braccio, disse con una voce alta dal timbro gradevole:

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