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Peste-Annuška si alzava, chissà perché, molto presto, ma quel giorno qualcosa l’aveva fatta saltar giú dal letto a notte fonda, poco dopo mezzanotte. La chiave girò nella toppa, il naso di Annuška spuntò dalla porta, dopo di che spuntò anche lei tutta intera, richiuse l’uscio dietro di sé e stava già per mettersi in moto quando sul pianerottolo soprastante una porta si chiuse con un tonfo, qualcuno rotolò giú per le scale e, investendo Annuška, la buttò da un lato con un impeto tale che essa batté la nuca contro il muro.

— Dove diavolo vai, cosí, in mutande? — strillò Annuška, afferrandosi la nuca.

L’individuo in camicia e mutande, con una valigia in mano e un berretto in testa, rispose a occhi chiusi ad Annuška con una strana voce insonnolita:

— Lo scaldabagno… il vetriolo… l’imbiancatura da sola è costata un occhio della testa… — e, scoppiando a piangere, sbraitò: — Via!

E si slanciò di corsa, non giú per le scale ma indietro verso l’alto, dove c’era la finestra col vetro rotto dal piede dell’economista, e da questa finestra volò a capofitto giú in cortile. Annuška dimenticò perfino la sua nuca, gemette:

— Oh! — e si precipitò a sua volta verso la finestra. Distesa bocconi sul pianerottolo, mise fuori la testa, aspettandosi di vedere sull’asfalto del cortile, illuminato da un lampione, il corpo sfracellato dell’uomo con la valigia. Ma sull’asfalto del cortile non c’era un bel niente.

Restava da presumere che lo strano individuo insonnolito fosse volato via dalla casa senza lasciar traccia di sé. Annuška si fece il segno della croce e pensò: «Eh, non c’è che dire, l’appartamento n. 50! Non per niente la gente dice… Accipicchia, che appartamento!…»

Non aveva ancora finito di pensare questo, che la porta in alto sbatté di nuovo e qualcun altro si mise a correre in giú. Annuška si strinse al muro e si vide sgattaiolare davanti un cittadino abbastanza rispettabile, con la barbetta, ma con una faccia — cosí almeno sembrò ad Annuška — lievemente suina; anche costui, come già l’altro, abbandonò la casa passando dalla finestra, e anche lui non si sognò neppure di sfracellarsi sull’asfalto. Annuška aveva ormai dimenticato per quale scopo fosse uscita e rimase per le scale, segnandosi, gemendo: ohi, ohi, e discorrendo fra sé.

Il terzo senza barbetta, con una faccia rotonda e glabra, in camiciotto alla Tolstoj, scese poco dopo di corsa e esattamente allo stesso modo frullò via dalla finestra.

Va detto a onore di Annuška che essa era curiosa e aveva deciso di aspettare ancora un po’ per vedere se non ci sarebbero stati altri prodigi. In alto, la porta si aperse di nuovo e tutta una comitiva cominciò a scendere, non di corsa, ma a passo abituale, come camminano tutti. Annuška scappò via dalla finestra, scese verso la sua porta, l’aprí in fretta, si nascose dietro di essa, e dallo spiraglio lasciato aperto baluginò il suo occhio pieno di frenetica curiosità.

Un tizio, malato o non malato, ma strano, pallido, con la barba lunga, un berrettino e una specie di vestaglia, scendeva a passi malfermi. Una signora in tonaca nera, cosí almeno sembrò ad Annuška in quella semioscurità, lo conduceva premurosamente sotto braccio. Era una madama scalza, oppure con certe scarpette trasparenti, evidentemente importate dall’estero, tutte sbrindellate. Puh, altro che scarpette!… La madama era nuda! Ma certo, s’era infilata la tonaca sul corpo nudo!… «Accipicchia, che appartamento!…» L’anima di Annuška era tutto un inno di gioia, pregustando quel che avrebbe avuto da raccontare l’indomani ai vicini.

Dietro la madama bizzarramente vestita ne veniva un’altra tutta nuda con una valigetta in mano e accanto alla valigetta arrancava un enorme gatto nero. Annuška trattenne a stento uno strillo e si stropicciò gli occhi.

Chiudeva il corteo uno straniero di piccola statura, zoppicante, guercio da un occhio, senza giacca, in panciotto bianco da marsina e con tanto di cravatta. Tutta questa comitiva sfilò davanti ad Annuška e proseguí verso le scale. In quel momento qualcosa cadde con un tonfo sul pianerottolo.

Quando sentí che i passi si smorzavano, Annuška sgusciò fuori della porta come una serpe, appoggiò il bidoncino al muro, si gettò bocconi sul pianerottolo e cominciò a tastare intorno a sé. A un tratto si trovò fra le mani un tovagliolino con qualcosa di pesante. Quando ebbe sciolto l’involtino, Annuška strabiliò. Accostò il gioiello agli occhi, e in questi occhi ardeva un fuoco come in quelli d’un lupo Nella testa di Annuška vorticava una bufera:

«Non so niente, non ho visto niente. Portarlo da mio nipote? O segarlo in tanti pezzettini?… Le pietre si possono cavar fuori e venderle una alla volta: una sulla Petrovka, un’altra allo Smolenskij.[21] E io non so niente, non ho visto niente».

Annuška nascose in seno quel che aveva trovato, afferrò il bidoncino e stava per infilarsi di nuovo nell’appartamento, rinviando il suo viaggio in città, allorché le sorse davanti, sa il diavolo di dove fosse spuntato, quello stesso tipo dal petto bianco, senza giacca, e sussurrò piano:

— Fuori il ferro da cavallo e il tovagliolino!

— Che tovagliolino e che ferro da cavallo? — chiese Annuška, recitando molto abilmente la commedia. — Non so di nessun tovagliolino. Ehi, amico, è ubriaco?

Senza aggiungere altro, con dita dure come le maniglie d’un autobus, e altrettanto fredde, il tizio dal petto bianco strinse la gola di Annuška cosí forte da impedire all’aria qualsiasi accesso al di lei petto. Il bidoncino le cadde dalle mani e finí in terra. Dopo averla tenuta un po’ di tempo senz’aria, lo straniero privo di giacca tolse le dita dal suo collo. Inghiottita una boccata d’aria, Annuška sorrise.

— Ah, un piccolo ferro da cavallo? — disse. — Subito subito. Sicché è suo quel ferro? E io guardo, eccolo lí nel tovagliolino, l’ho messo via apposta, perché non lo raccattasse qualcuno e poi chi s’è visto s’è visto!

Ricevuto il ferro e il tovagliolino, lo straniero cominciò a strisciar riverenze davanti ad Annuška, a stringerle forte la mano e a ringraziarla calorosamente, con un fortissimo accento straniero, dicendo:

— Le sono profondamente grato, madame. Questo piccolo ferro da cavallo mi è caro perché è un ricordo. E mi permetta, giacché l’ha messo al sicuro, di porgerle duecento rubli — . E immantinente trasse il denaro dal taschino del panciotto e lo porse ad Annuška.

Questa, sorridendo perdutamente, si limitava a gridare:

— Ah, la ringrazio umilissimamente! Merci! Merci!

Il munifico straniero scivolò giú in un batter d’occhio per tutta la rampa, ma prima di sparire definitivamente gridò da sotto, senza piú nessun accento:

— Vecchia strega, se ti capita ancora una volta di raccattare la roba altrui, consegnala alla polizia, e non nasconderla in seno!

Con uno scampanio in testa e una gran confusione a causa di tutto quel che era avvenuto sulla scala, Annuška seguitò ancora un pezzo a gridare per inerzia:

— Merci! Merci! Merci!… — ma da molto tempo lo straniero non c’era piú.

E non c’era piú nemmeno la macchina in cortile. Dopo aver restituito a Margherita il dono di Woland, Azazello si accomiatò da lei e chiese se era seduta comodamente, Hella abbracciò e baciò di gusto Margherita, il gatto le baciò la mano, gli accompagnatori salutarono con la mano il Maestro che, inerte e immobile, stava quasi sdraiato in un angolo del sedile, fecero cenno al gracchio di partire e subito svanirono nell’aria, ritenendo inutile sobbarcarsi alla fatica di salire le scale. Il gracchio accese i fari e uscí dal portone, passando davanti all’uomo che dormiva della grossa. E le luci della grande macchina nera scomparvero fra le altre dell’insonne e rumorosa Sadovaja.

Un’ora dopo, nello scantinato di una casetta in uno dei vicoli dell’Arbat, nella prima stanza dove tutto era esattamente come prima della terribile notte autunnale dell’anno precedente, davanti alla tavola coperta da un tappeto di velluto, sotto la lampada col paralume, vicino alla quale c’era un piccolo vaso di mughetti, Margherita sedeva e piangeva sommessamente per tutte le emozioni che l’avevano sconvolta e per la felicità. Davanti a lei c’era un quaderno rovinato dal fuoco e accanto ad esso una pila di quaderni intatti. La casetta taceva. Nella piccola stanza attigua il Maestro giaceva sul divano, profondamente addormentato, coperto dalla vestaglia d’ospedale. Il suo respiro uguale era silenzioso.

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21

La Petrovka è una via centrale di Mosca; lo Smolenskij era un mercato sulla piazza omonima

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