— Arčibal’d Arčibal’dovic, mi ci vorrebbe un po’ di vodka…
Il pirata atteggiò il volto a comprensione, sussurrò:
— Capisco… subito… — e fece segno a un cameriere.
Un quarto d’ora dopo Rjuchin se ne stava solo solo, rattrappito sopra un piatto di pesce, e beveva un bicchierino dopo l’altro, comprendendo e riconoscendo che nella sua vita ormai non si poteva correggere nulla, e altro non restava che dimenticare.
Mentre gli altri facevano baldoria, il poeta aveva sprecato la sua notte, e adesso capiva che recuperarla era impossibile. Bastava alzare la testa dalla lampadina e guardare il cielo per capire che la notte era irrevocabilmente perduta. Con gesti veloci, i camerieri strappavano le tovaglie dai tavoli. I gatti, che scorrazzavano presso la veranda, avevano un’aria mattutina. Sul poeta cadeva irrefrenabilmente il giorno.
CAPITOLO SETTIMO
Un appartamento poco simpatico
Se, al mattino dopo, avessero detto a Stepa Lichodeev:
«Stepa! Sarai fucilato se non ti alzi subito!», Stepa avrebbe risposto con voce fievole e languida: «Fucilatemi, fate di me quel che volete, ma non mi alzo!»
Altro che alzarsi! Gli sembrava di non poter neppure aprire gli occhi: se lo avesse fatto, un fulmine sarebbe esploso e gli avrebbe mandato in pezzi la testa. In essa rimbombava una pesante campana, tra i globi oculari e le palpebre chiuse fluttuavano macchie brune orlate di un verde fiammeggiante, e per di piú sentiva una nausea che sembrava collegata ai suoni di un ossessivo grammofono.
Stepa tentava di ricordare qualcosa, ma ricordava soltanto che, forse ieri e non sapeva dove, se ne stava in piedi con un tovagliolo in mano e cercava di baciare una signora, e le prometteva che sarebbe andato a trovarla l’indomani a mezzogiorno in punto. La signora si schermiva, dicendo: «No, no, non sarò in casa!», ma Stepa insisteva con tenacia: «Invece io vengo!»
Chi fosse la signora, che ora fosse, che giorno, che mese, Stepa non lo sapeva assolutamente, e il peggio era che non riusciva a capire dove si trovasse. Tentò di chiarire almeno quest’ultimo punto e a questo scopo disserrò la palpebra appiccicata dell’occhio sinistro. Nella penombra qualcosa mandava un fioco riflesso. Finalmente Stepa riconobbe la specchiera, e capí che giaceva riverso sul suo letto, cioè sull’ex letto della gioielliera, nella propria camera. A questo punto sentí un tale colpo alla testa che chiuse gli occhi e lanciò un gemito.
Spieghiamoci: Stepa Lichodeev, direttore del Teatro di Varietà, si svegliò al mattino nell’appartamento che condivideva con il defunto Berlioz, in una casa a cinque piani che dava sulla Sadovaja.
Si deve dire che quell’appartamento — il n. 50 — godeva da tempo di una reputazione che, se non cattiva, era in ogni modo ambigua. Sino a due anni prima, esso apparteneva alla vedova del gioielliere de Fougeret. Anna Francevna de Fougeret, rispettabile signora cinquantenne molto attiva, affittava tre camere su cinque: uno degli inquilini si chiamava, pare, Belomut, l’altro non aveva piú il cognome.
Ed ecco che circa due anni fa, nell’appartamento erano cominciati avvenimenti inspiegabili: gli inquilini cominciarono a sparire senza lasciare traccia.
In un giorno festivo venne nell’appartamento un poliziotto, chiamò in anticamera il secondo inquilino (quello che non aveva piú il cognome) e disse che egli era pregato di passare per un attimo al commissariato per una firma. L’inquilino ordinò ad Anfisa, antica e fedele domestica di Anna Francevna, di dire — se qualcuno avesse telefonato che sarebbe ritornato di lí a dieci minuti, e andò via con il cortese poliziotto dai guanti bianchi. Però, non solo non tornò di lí a dieci minuti, ma non tornò piú del tutto. La cosa piú strana era che con lui, a quanto sembra, scomparve anche il poliziotto.
La religiosa o, per dirla schietta, la superstiziosa Anfisa dichiarò apertamente alla sconvolta Anna Francevna che si trattava di stregoneria e che lei sapeva perfettamente chi aveva rapito l’inquilino e il poliziotto, ma, poiché la notte si avvicinava, non lo voleva dire.
Si sa che la stregoneria basta che cominci e non c’è piú mezzo per fermarla. Il secondo inquilino scomparve, se ben ricordiamo, un lunedí, e al mercoledí sparí Belomut. Sia pure in circostanze differenti. Al mattino la macchina era passata a prenderlo, come sempre, per portarlo in ufficio, e ve lo portò, ma non riportò indietro nessuno e non si fece piú vedere.
Il dolore e il terrore della signora Belomut erano indescrivibili. Ma, ohimè, sia l’uno che l’altro durarono poco. Nella stessa notte, tornata con Anfisa da una dacia dove, chi sa perché, Anna Francevna si era recata in tutta fretta, essa non trovò piú la signora Belomut nell’appartamento.
Ma non basta: le porte delle due camere occupate dai coniugi Belomut avevano i sigilli.
Due giorni passarono alla bell’e meglio. Al terzo, Anna Francevna, che in tutto quel periodo soffriva d’insonnia, ripartí di nuovo in gran fretta per la dacia… Occorre dire che non ritornò?
Rimasta sola, Anfisa, dopo aver pianto a volontà, andò a dormire che era l’una passata. Che cosa le succedesse in seguito non si sa, ma gli inquilini degli altri appartamenti raccontavano che nell’appartamento n. 50 si udirono per tutta la notte dei colpi, e le finestre rimasero illuminate fino al mattino. Al mattino si scoprí che neppure Anfisa c’era piú!
Sugli scomparsi e sull’appartamento maledetto per lungo tempo nella casa si raccontarono leggende d’ogni sorta: ad esempio, che la gracile e religiosa Anfisa avrebbe portato sul seno inaridito in un sacchetto di camoscio venticinque grossi brillanti di proprietà di Anna Francevna. Che nella legnaia della dacia, dove si era recata in gran fretta Anna Francevna, sarebbero saltati fuori da soli tesori inestimabili consistenti sempre in brillanti nonché in monete d’oro di conio zarista… E altre cose del genere. Ma quello che non sappiamo non lo possiamo garantire.
Comunque stessero le cose, l’appartamento rimase vuoto e sigillato soltanto per una settimana, poi vi si stabilirono il defunto Berlioz con la moglie, e Stepa con la consorte. È del tutto naturale che, non appena si trovarono nell’appartamento maledetto, anche a loro cominciò a succedere il diavolo sa cosa. E precisamente: prima che fosse trascorso un mese le due consorti erano scomparse. Però non senza lasciare traccia. Della consorte di Berlioz si diceva che fosse stata vista a Char’kov con un coreografo, mentre quella di Stepa sarebbe stata individuata sulla Bozedomka dove, secondo le dicerie, il direttore del Varietà approfittando delle innumerevoli aderenze, era riuscito a procurarle una stanza, alla condizione che non mostrasse mai il naso sulla Sadovaja…
Dunque Stepa lanciò un gemito. Voleva chiamare la donna di servizio, Grunja, per chiederle del piramidone, ma riuscí a rendersi conto che sarebbe stato inutile perché naturalmente Grunja il piramidone non l’aveva. Tentò di chiamare in suo aiuto Berlioz, e gemette due volte: «Miša… Miša…», ma, come voi potete ben capire, non ebbe risposta. Nell’appartamento regnava il silenzio piú assoluto.
Stepa mosse le dita dei piedi e intuí che era a letto con i calzini, si passò poi una mano tremante lungo le cosce per sapere se aveva addosso o no i pantaloni, ma non riuscí a stabilirlo Quando finalmente vide che era solo e abbandonato e che non c’era nessuno che l’aiutasse, decise di alzarsi, benché sapesse quali sforzi sovrumani questo gli sarebbe costato.
Stepa disserrò le palpebre incollate e si vide riflesso nello specchio sotto forma di un uomo coi capelli rizzati in ogni direzione, la faccia gonfia coperta di peli neri, gli occhi enfiati, la camicia sporca col colletto e la cravatta, in mutandoni e calzini.