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Scuotendo il coltello rubato non invano, sdrucciolando sulle scivolose sporgenze, aggrappandosi a tutto quello che gli capitava, strisciando a volte sulle ginocchia, egli correva verso i pali. Ora scompariva nella completa oscurità, ora era rischiarato all’improvviso da una luce palpitante.

Quando finalmente riuscí ad arrivare ai pali, con l’acqua che ormai giungeva alle caviglie, si strappò di dosso il taleth fradicio, pesante di pioggia, rimase con la sola camicia, e si buttò ai piedi di Jeshua. Tagliò le corde sopra le caviglie, si sollevò sulla traversina inferiore, abbracciò Jeshua e liberò le braccia dai lacci superiori. Il nudo corpo madido di Jeshua cadde su di lui trascinandolo in terra col suo peso. Levi volle caricarselo subito sulle spalle, ma un pensiero lo fermò. Lasciò in terra, nell’acqua, il corpo con la testa gettata indietro e le braccia spalancate, e corse verso gli altri pali coi piedi che scivolavano sull’argilla pastosa. Tagliò anche le loro corde, e i due corpi piombarono in terra.

Passarono alcuni minuti, e sulla cima della collina rimasero soltanto quei due corpi e tre pali vuoti. L’acqua urtava e voltolava i cadaveri.

Sulla collina non c’erano piú né Levi né il corpo di Jeshua.

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

Una giornata agitata

Venerdí mattina, cioè all’indomani della maledetta rappresentazione, tutto l’organico del Varietà: il ragionier Vasilij Stepanovič Lastočkin, due contabili, tre dattilografe entrambe le cassiere, i fattorini, gli inservienti e le donne della pulizia, insomma tutti i presenti non si trovavano ai propri posti di lavoro, ma sedevano invece sui davanzali delle finestre che davano sulla Sadovaja e guardavano che cosa stava succedendo lungo il muro del Varietà. Lungo quel muro, su due file, si pigiava una coda di migliaia di persone, che terminava sulla piazza Kudrinskaja. Al principio della fila c’erano una ventina di bagarini, ben noti negli ambienti teatrali di Mosca.

La fila era molto eccitata, attirava l’attenzione dei passanti che le scorrevano accanto, ed era impegnata a discutere gli emozionanti racconti sull’inaudita rappresentazione di magia nera. Questi stessi racconti avevano messo nel piú grande imbarazzo il ragionier Vasilij Stepanovič che non aveva assistito allo spettacolo del giorno prima. Gli inservienti raccontavano dio sa che cosa, tra l’altro che, dopo la fine del famoso spettacolo, alcune signore vestite in modo indecente correvano per la via, e altri particolari dello stesso genere. Il quieto e modesto Vasilij Stepanovič non faceva che sbattere le palpebre ascoltando le ciarle su tutti quei prodigi e non sapeva assolutamente che iniziativa prendere, eppure prendere un’iniziativa era indispensabile, e doveva prenderla proprio lui, essendo rimasto quello col grado piú alto di tutta la squadra del Varietà.

Alle dieci del mattino, la coda degli aspiranti all’acquisto dei biglietti era talmente cresciuta che ne giunse voce alla polizia e con sorprendente velocità furono distaccati dei reparti, a piedi e a cavallo, che misero un certo ordine nella fila. Però quel serpente lungo un chilometro, sia pure disciplinato, costituiva di per sé una forte attrattiva, e sbalordiva all’estremo tutti quelli della Sadovaja.

Questo avveniva fuori, ma anche nell’interno del Varietà le cose non si mettevano bene. Sin dal mattino presto avevano cominciato a suonare i telefoni e suonavano senza interruzione nell’ufficio di Lichodeev, in quello di Rimskij, in contabilità, alla cassa e nell’ufficio di Varenucha. Dapprima Vasilij Stepanovič rispondeva qualcosa, rispondeva la cassiera, borbottavano al telefono gli inservienti, ma poi smisero di rispondere perché alle domande dove si trovassero Lichodeev, Varenucha, Rimskij non avevano proprio niente da rispondere. All’inizio avevano cercato di cavarsela con le parole «Lichodeev è a casa», ma dalla città ribattevano di aver telefonato a casa, e che là dicevano che Lichodeev era al Varietà.

Telefonò una signora agitata che esigeva di parlare con Rimskij; le consigliarono di rivolgersi alla moglie, al che il ricevitore, singhiozzando, rispose che la moglie era lei, e che Rimskij era introvabile. Cominciavano i pasticci. Una donna della pulizia aveva già raccontato a tutti che, arrivata nell’ufficio del direttore finanziario a mettere ordine, aveva visto che la porta era spalancata, le luci accese, la finestra sul giardino fracassata, una poltrona era per terra e non c’era nessuno.

Poco dopo le dieci irruppe nel Varietà la signora Rimskaja. Singhiozzava e si torceva le mani. Vasilij Stepanovič aveva perso completamente la testa e non sapeva che cosa consigliarle. Alle dieci e mezzo arrivò la polizia. La prima e ragionevolissima domanda fu:

— Signori, che sta succedendo qui? Di che si tratta?

Il personale arretrò, lasciando in prima fila Vasilij Stepanovič, pallido e agitato. Fu giocoforza chiamare le cose col proprio nome, e confessare che l’amministrazione del Varietà, nelle persone del direttore finanziario e dell’amministratore, era scomparsa e si trovava non si sapeva dove, che il presentatore, dopo lo spettacolo del giorno prima, era stato portato alla clinica psichiatrica e che, insomma, quello spettacolo era stato uno scandalo.

Calmarono per quanto era possibile la singhiozzante signora Rimskaja, la rispedirono a casa, e s’interessarono soprattutto al racconto della donna sullo stato in cui aveva trovato l’ufficio del direttore. Gli impiegati furono pregati di recarsi ai loro posti e di lavorare, e poco dopo giunse al Varietà la squadra investigativa in compagnia di un muscoloso cane color cenere di sigaretta, con le orecchie a punta e gli occhi estremamente intelligenti. Tra gli impiegati del Varietà si diffuse immediatamente la voce che quel cane altri non era che il celebre Assodiquadri. Difatti, era proprio lui. La sua condotta sorprese tutti. Non appena Assodiquadri entrò nell’ufficio del direttore finanziario egli ringhiò, mettendo in mostra mostruosi canini giallastri, poi si sdraiò sulla pancia, e, con un’espressione di angoscia e, al tempo stesso, di furore negli occhi, strisciò verso la finestra fracassata. Dominata la sua paura, balzò a un tratto sul davanzale e, puntando in alto il muso aguzzo, cominciò a ululare in modo rabbioso e terribile. Non voleva lasciare la finestra, ringhiava, rabbrividiva, cercava di balzare giú.

Il cane fu fatto uscire dall’ufficio e condotto nel vestibolo; di lí, attraverso l’ingresso principale, uscí nella via e guidò coloro che lo seguivano al posteggio dei tassí. Lí perse la traccia che aveva fiutato. Poi Assodiquadri fu portato via.

La squadra investigativa si sistemò nell’ufficio di Varenucha, dove vennero convocati a turno gli impiegati del Varietà che avevano assistito agli avvenimenti successi durante lo spettacolo del giorno prima. Bisogna dire che ad ogni passo davanti agli investigatori sorgevano difficoltà impreviste. Ad ogni istante il filo conduttore si spezzava.

I manifesti c’erano stati? Sí. Ma durante la notte, erano stati ricoperti da altri, e adesso non se ne vedeva neppure uno, neanche a pagarlo a peso d’oro! Da dove era saltato fuori quel mago? E chi lo sapeva. Era stato concluso un contratto con lui?

— Immagino, — rispondeva agitato Vasilij Stepanovič.

— Se è stato fatto, doveva passare in contabilità?

— Senz’altro, — rispondeva Vasilij Stepanovič, sottosopra.

— Allora dov’è?

— Non c’è, — rispondeva il ragioniere impallidendo sempre piú e allargando le braccia.

Infatti, né nelle cartelle della contabilità, né dal direttore finanziario, né da Lichodeev, né da Varenucha c’erano tracce del contratto.

Come si chiamava il mago? Vasilij Stepanovič non lo sapeva, non era stato alla rappresentazione. Gli inservienti non lo sapevano. La cassiera della biglietteria corrugò la fronte, pensò e ripensò, infine disse:

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