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Il nuovo venuto, un uomo sui quarant’anni, scuro, lacero, coperto di fango secco, lanciava occhiate di traverso come un lupo. Insomma, aveva un aspetto per nulla attraente e somigliava piú che altro a un mendico cittadino come se ne trovano molti sui terrazzi del tempio o nei mercati della rumorosa e sporca città bassa.

Il silenzio durò a lungo, e fu rotto dallo strano comportamento dell’uomo che era stato introdotto in presenza di Pilato. Cambiò in volto, barcollò, e se non si fosse afferrato con la mano sporca al bordo del tavolo, sarebbe certamente caduto.

— Che cos’hai? — chiese Pilato.

— Niente, — rispose Levi Matteo facendo un movimento come se inghiottisse qualcosa. Il suo collo magro, nudo grigio si gonfiò, poi riprese la forma primitiva.

— Che cos’hai, rispondi? — ripeté Pilato.

— Sono stanco, — rispose Levi e guardò cupo il pavimento.

— Siedi, — disse Pilato indicando la scranna.

Levi guardò incredulo il procuratore, si avvicinò, diede un’occhiata impaurita ai braccioli dorati e sedette non sulla scranna ma vicino, in terra.

— Spiegami perché non ti sei seduto sulla scranna, chiese Pilato.

— Sono sporco, l’avrei insudiciata, — disse Levi guardando in terra.

— Adesso ti daranno da mangiare.

— Non voglio mangiare, — rispose Levi.

— A che serve mentire? — chiese sommesso Pilato. Non hai mangiato per un giorno intero, e forse anche piú. E va bene, non mangiare. Ti ho chiamato perché tu mi mostrassi il coltello che avevi con te.

— I soldati me l’hanno sequestrato quando mi hanno condotto qui da te, — rispose Levi, e soggiunse cupamente: — Rendetemelo, devo restituirlo al proprietario: l’ho rubato.

— Perché?

— Per tagliare le corde.

— Marco! — chiamò il procuratore, e il centurione entrò nel porticato. — Dammi il suo coltello.

Il centurione tolse da uno dei due foderi che portava alla cintura un coltello da panettiere e lo porse al procuratore, poi si allontanò.

— Dove l’hai preso?

— Nella panetteria presso la porta di Hebron, subito a sinistra appena si entra in città.

Pilato guardò la larga lama, saggiò col dito l’affilatura, e disse:

— Per il coltello non preoccuparti, sarà riconsegnato al proprietario. Adesso mi serve un’altra cosa: mostrami la pergamena che porti con te, dove sono trascritte le parole di Jeshua.

Levi guardò con odio Pilato e fece un sorriso cosí cattivo che il volto gli si deformò completamente.

— Tutto mi vuoi prendere? Tutto quanto mi è rimasto? — chiese.

— Non ti ho detto «dammela», — rispose Pilato, — ho detto «mostramela».

Levi si frugò in seno e trasse un rotolo di pergamena.

Pilato lo prese, lo svolse, lo distese tra i lumi e, socchiudendo gli occhi, cominciò a studiare quei segni poco decifrabili. Era difficile capire quelle righe storte, e Pilato corrugava la fronte e si chinava sulla pergamena, seguendo col dito le righe. Riuscí comunque a capire che quello scritto era una catena sconnessa di massime, di date, di appunti domestici e di frammenti poetici. Qualcosa riuscí a leggere: «…la morte non esiste… ieri abbiamo mangiato dolci fichi primaverili…»

Con una smorfia per lo sforzo, Pilato socchiudendo gli occhi, leggeva: «… vedremo il puro fiume dell’acqua della vita… l’umanità guarderà il sole attraverso un diafano cristallo…»

Qui Pilato sussultò. Nelle ultime righe della pergamena aveva decifrato le parole: «il vizio maggiore… la codardia..»

Pilato arrotolò la pergamena e con un gesto brusco la restituí a Levi.

— Prendi, — disse, e dopo una pausa soggiunse: — vedo che sei un uomo di lettere, e non è il caso che tu, che sei solo, giri vestito come un mendicante, senza un rifugio. A Cesarea ho una grande biblioteca, sono molto ricco e voglio prenderti al mio servizio. Esaminerai e riordinerai i papiri, avrai da mangiare e da vestire.

Levi si alzò e rispose:

— No, non voglio.

— Perché? — chiese il procuratore, facendosi scuro in volto. — Non ti piaccio… mi temi?

Lo stesso cattivo sorriso storse i lineamenti di Levi, che disse:

— No, perché sarai tu a temermi. Non ti sarà tanto facile guardarmi in faccia dopo averlo ucciso.

— Taci, — rispose Pilato, — prendi del denaro.

Levi scosse la testa in segno di diniego, mentre il procuratore proseguiva:

— So che tu ti consideri un discepolo di Jeshua, ma ti dirò che non hai assimilato niente di ciò che egli ti ha insegnato. Infatti, se non fosse cosí, avresti senz’altro accettato qualcosa da me. Tieni conto che prima di morire ha detto che non accusava nessuno — . Pilato alzò un dito con fare significativo, il suo volto era contratto da un tic. — E lui stesso avrebbe certamente accettato qualcosa. Tu sei crudele, lui non lo era. Dove andrai?

All’improvviso Levi si avvicinò al tavolo, vi si appoggiò con ambo le mani, e guardando il procuratore con occhi ardenti, gli sussurrò:

— Tu, egemone, sappi che io sgozzerò un uomo a Jerushalajim. Ho voglia di dirtelo affinché tu sappia che ci sarà ancora del sangue.

— Lo so anch’io che ce ne sarà ancora, — rispose Pilato, — non mi sorprendono queste tue parole. Naturalmente, vuoi ammazzare me?

— Non ci riuscirei, — rispose Levi, digrignando i denti e sorridendo, — non sono tanto stupido da contarci. Ma ammazzerò Giuda di Kiriat: a questo dedicherò il resto della mia vita.

Qui gli occhi del procuratore si riempirono di delizia, e facendo segno col dito a Levi di avvicinarsi di piú, disse:

— Non potrai farlo, non pensarci piú. Giuda è già stato ammazzato questa notte.

Levi si allontanò dal tavolo con un balzo, guardandosi attorno con occhi spiritati, ed esclamò:

— Chi l’ha fatto?

— Non essere geloso, — rispose Pilato digrignando i denti, e si fregò le mani, — temo che avesse altri ammiratori oltre a te.

— Chi l’ha fatto? — ripeté Levi in un sussurro.

Pilato gli rispose:

— L’ho fatto io.

Levi spalancò la bocca e fissò il procuratore, che disse sommesso:

— Con questo non si è fatto molto, naturalmente, però l’ho fatto io — . E soggiunse: — Be’, adesso accetterai qualcosa?

Levi pensò, si addolcí, e disse infine:

— Disponi che mi diano un pezzo di pergamena nuova.

Passò un’ora. Levi non era piú nel palazzo. Adesso il silenzio dell’alba era interrotto soltanto dal rumore lieve dei passi delle sentinelle nel giardino. La luna sbiadiva rapidamente, all’altro lato del cielo si vedeva la macchiolina bianchiccia della stella mattutina. Da un pezzo i candelabri erano stati spenti. Il procuratore si era coricato. Con la mano sotto la guancia, dormiva e respirava silenziosamente. Vicino a lui dormiva Banga.

Cosí il quinto procuratore della Giudea Ponzio Pilato incontrò l’alba del quindici di Nisan.

CAPITOLO VENTISETTESIMO

Fine dell’appartamento n.50

Quando Margherita giunse alle ultime parole del capitolo «Cosí il quinto procuratore della Giudea Ponzio Pilato incontrò l’alba del quindici di Nisan», era giunto il mattino.

Si udiva nel cortiletto, tra i rami del salice e del tiglio, l’allegro ed eccitato cicaleccio mattutino dei passerotti.

Margherita si alzò dalla poltrona, si stiracchiò, e solo allora sentí quanto fosse indolenzito il suo corpo e che voglia avesse di dormire. E interessante notare che l’animo di Margherita era perfettamente normale. I suoi pensieri non erano confusi, non era per nulla scossa dall’aver trascorso la notte in modo straordinario. Non l’emozionava il ricordo della sua presenza al ballo di Satana, né che per un miracolo il Maestro le fosse stato restituito, che dalla cenere fosse risorto il romanzo, che tutto fosse di nuovo al proprio posto nello scantinato del vicolo, da dove era stato scacciato il delatore Aloizij Mogaryč. Insomma, la conoscenza con Woland non le aveva recato alcun nocumento spirituale Tutto era andato come se cosí dovesse andare.

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