L’alaria lasciò passare tutti, mentre la seconda centuria lasciò passare oltre soltanto quelli che avevano a che fare col supplizio, poi, con una rapida manovra, disperse intorno a tutta la collina la folla in modo che questa venne a trovarsi tra lo sbarramento di fanteria in alto e quello di cavalleria in basso. Adesso potevano vedere il supplizio attraverso il rado cordone dei fanti.
Cosí, erano passate piú di tre ore dal momento dell’ascesa al Calvario e il sole si stava già abbassando su di esso ma il caldo era ancora insopportabile e i soldati di entrambi gli sbarramenti ne soffrivano, languivano di noia e in cuor loro maledicevano i tre ladroni, augurando loro sinceramente una rapidissima morte. Con la fronte madida e la camicia bianca scura di sudore sulla schiena, il piccolo comandante dell’alaria, che si trovava ai piedi della collina presso l’accesso aperto, si avvicinava ogni momento all’otre di cuoio del primo plotone, ne attingeva l’acqua con le mani, beveva e si bagnava il turbante. Dopo aver ottenuto cosí qualche sollievo, si allontanava e riprendeva a percorrere avanti e indietro la strada polverosa che portava alla cima. La sua lunga spada batteva sullo stivale di pelle allacciato. Il comandante voleva dare ai suoi uomini un esempio di resistenza, ma, preso da compassione per i soldati, permise loro di formare, con le lance piantate in terra, delle piramidi e di gettarvi sopra i mantelli bianchi. Sotto quelle specie di tende i siriani si ripararono dal sole spietato. I secchi si vuotavano rapidamente, e i cavalieri dei vari plotoni andavano a turno a prendere acqua nel burrone alle falde della collina dove all’ombra rada di scarni gelsi un ruscelletto torbido viveva le sue ultime ore in quel diabolico caldo. Si trovavano lí, seguendo l’instabile ombra, e si annoiavano i guardiani di cavalli, che tenevano per le redini i loro animali fattisi docili.
La noia dei soldati e le loro ingiurie all’indirizzo dei ladroni erano comprensibili. I timori del procuratore circa i disordini che avrebbero potuto avvenire in occasione del supplizio nell’odiosa città di Jerushalajim per fortuna non si erano avverati. E quando trascorse la terza ora del supplizio, tra i due sbarramenti — quello superiore di fanteria e quello di cavalleria — alle falde della collina non era rimasta, contrariamente ad ogni aspettativa, neppure una persona. Il sole aveva riarso la folla e l’aveva ricacciata a Jerushalajim. Oltre gli sbarramenti delle due centurie romane si trovavano soltanto due cani che non si sapeva a chi appartenessero e perché fossero capitati sulla collina. Ma anch’essi erano spossati dal caldo, e si erano sdraiati, con le lingue penzoloni, respirando pesantemente, senza prestare la minima attenzione alle lucertole dal dorso verde, gli unici esseri che non temevano il sole e correvano qua e là tra le rocce infuocate e le piante che, coperte di grosse spine, strisciavano sul terreno.
Nessuno aveva fatto il tentativo di liberare i condannati, né a Jerushalajim, gremita di truppe, né qui, sulla collina circondata, e la folla era rientrata in città, perché non c’era davvero nulla d’interessante in quel supplizio, mentre là, in città, erano già in corso i preparativi per la grande festa di Pasqua che doveva avere inizio alla sera.
La fanteria romana della fila superiore soffriva ancora piú della cavalleria. L’unico permesso che il centurione Ammazzatopi aveva concesso ai soldati era stato quello di togliersi gli elmi e di coprirsi con fasce bianche bagnate d’acqua, ma i soldati dovevano stare in piedi con le lance in mano. Lui stesso, con una fascia identica, ma asciutta, passeggiava avanti e indietro vicino al gruppo dei boia, senza neanche essersi tolto dalla tunica le teste di leone d’argento, senza essersi tolto le gambiere, la spada e il pugnale. Il sole cadeva a piombo sul centurione senza causargli il minimo danno, ed era impossibile posare lo sguardo sulle teste leonine, perché gli occhi venivano smangiati dall’abbagliante scintillio dell’argento che pareva bollire al sole.
Il volto deturpato dell’Ammazzatopi non esprimeva né stanchezza, né insoddisfazione, e pareva che il gigantesco centurione sarebbe stato in grado di camminare in quel modo tutto il giorno, tutta la notte, tutto il giorno successivo, insomma, tanto quanto sarebbe stato necessario. Camminare cosí, con le mani posate sul pesante cinturone dalle piastre di rame, guardando con la stessa severità ora i pali con i condannati, ora i soldati dello sbarramento, respingendo con la stessa indifferenza, con la punta dello stivale velloso, ossa umane imbiancate dal tempo o frammenti di selce che gli capitassero sotto i piedi.
L’uomo col cappuccio si era sistemato poco lontano dai pali su uno sgabello a tre piedi e sedeva in un’immobilità bonaria, però, ogni tanto, per la noia, ficcava nella sabbia un ramoscello.
Si era detto che dietro il cordone dei legionari non c’era anima viva, ma questo non è completamente esatto. Un uomo c’era, ma non tutti lo potevano vedere. Egli si era messo non sul lato dove si apriva l’accesso e da dove era piú comodo osservare il supplizio, ma sul versante nord, là dove la collina non era declive e accessibile, ma frastagliata, dove c’erano burroni e gole, là dove, in un crepaccio avvinghiandosi all’arida terra maledetta dal cielo, cercava di vivere un fico stento.
Proprio sotto quell’albero, che non dava la minima ombra, si era stabilito quell’unico spettatore, e non partecipante, del supplizio, ed era seduto su una pietra sin dall’inizio, cioè da oltre tre ore. Sí, per vedere il supplizio aveva scelto non il posto migliore, ma quello peggiore. Ma anche da esso si vedevano i pali, si vedevano oltre lo sbarramento anche due macchie luccicanti sul petto del centurione, e questo, per un uomo, che evidentemente voleva restare poco notato e non disturbato, doveva essere del tutto sufficiente.
Ma circa quattro ore prima, all’inizio del supplizio, quell’uomo si era comportato in tutt’altro modo e poteva senz’altro essere stato notato; forse per questo aveva cambiato il suo comportamento e si era isolato.
Allora, appena la processione era arrivata sulla cima oltre lo sbarramento, egli era comparso per la prima volta, e per di piú come un ritardatario. Aveva il respiro pesante e non camminava, ma correva su per la collina, si faceva largo tra la calca, e quando vide che la fila dei soldati si chiudeva davanti a lui, come davanti a tutti gli altri, fingendo di non capire i gridi stizziti, fece un ingenuo tentativo di incunearsi tra i soldati per arrivare al luogo stesso del supplizio, dove già stavano facendo scendere i condannati dal carro. Per questo ricevette un pesante colpo al petto con l’asta di una lancia, e balzò indietro con un grido di disperazione, non di dolore. Al legionario che lo aveva colpito lanciò un’occhiata opaca e assolutamente indifferente a tutto, come un uomo che non senta il dolore fisico.
Tossendo e ansando, premendosi il petto, fece di corsa il giro della collina, nel tentativo di trovare sul versante settentrionale uno spiraglio nello sbarramento attraverso cui insinuarsi. Ma era ormai tardi, l’anello si era richiuso. E l’uomo, con il viso sconvolto dal dolore, dovette rinunciare ai suoi tentativi di aprirsi un varco verso i carri, da cui avevano già tolto i pali. Quei tentativi avrebbero avuto l’unico risultato di farlo catturare, ma essere arrestato quel giorno non rientrava affatto nei suoi piani.
Ed egli se ne andò verso il crepaccio dove c’era piú calma e nessuno lo avrebbe disturbato.
Adesso, seduto su una pietra, quell’uomo dalla barba nera, con gli occhi cisposi per il sole e l’insonnia, era preso dall’angoscia. Ora sospirava, aprendo il suo taleth[14] logoratosi nei vagabondaggi, diventato grigio sporco da azzurro che era, e denudandosi il petto contuso dalla lancia e percorso da uno sporco sudore; ora, preso da un tormento indicibile, alzava gli occhi al cielo, seguendo tre avvoltoi che da tempo stavano descrivendo in alto ampi cerchi nel presentimento di un prossimo banchetto; ora fissava lo sguardo disperato sulla terra gialla e vi vedeva un cranio di cane mezzo distrutto e le lucertole che gli correvano intorno.