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Dopo aver pronunciato tutte queste corbellerie, Bengal’skij riuní le mani palmo contro palmo, e le agitò in segno di saluto nella fessura del sipario, al che questo si aperse con un fruscio.

L’apparizione del mago con l’aiutante spilungone e col gatto che entrò in scena camminando sulle zampe posteriori, piacque molto al pubblico.

— Una poltrona, — ordinò sottovoce Woland, e nello stesso istante apparve da chi sa dove una poltrona, su cui il mago si sedette. — Dimmi, gentile Fagotto, — domandò Woland al buffone vestito a quadretti che, oltre a quello di Korov’ev, aveva evidentemente un altro nome, — che ne dici, la popolazione di Mosca è molto cambiata?

Il mago guardò il pubblico silenzioso, stupefatto dall’apparizione della poltrona.

— Signorsí, Messere, — rispose sommesso Fagotto-Korov’ev.

— Hai ragione. I cittadini sono molto cambiati… esternamente dico… come la stessa città, del resto… Non parliamo poi dell’abbigliamento, ma sono apparsi quei… come si chiamano… tram, automobili…

— Autobus, — suggerí rispettosamente Fagotto.

Il pubblico seguiva con attenzione quel colloquio, pensando che esso fosse un preludio ai trucchi di magia. Le quinte erano gremite di attori e di macchinisti, e tra i loro volti si vedeva quello pallido e teso di Rimskij.

La faccia di Bengal’skij, che si era rifugiato in un lato del palcoscenico, cominciò ad esprimere imbarazzo. Egli alzò lievemente un sopracciglio e, approfittando di una pausa, disse:

— L’artista straniero esprime la sua ammirazione per Mosca, progredita dal punto di vista tecnico nonché per i moscoviti, — qui Bengal’skij sorrise due volte, dapprima alla platea, poi alla balconata.

Woland, Fagotto e il gatto voltarono la testa verso il presentatore.

— Ho forse espresso ammirazione? — chiese il mago a Fagotto.

— Signornò, Messere, lei non ha espresso ammirazione alcuna, — rispose quello.

— Allora che cosa dice quello lí?

— Racconta balle, ecco tutto! — comunicò l’aiutante quadrettato con voce sonora che si sentí in tutto il teatro e, rivolgendosi a Bengal’skij, aggiunse: — Mi congratulo con lei, signor contaballe!

In balconata si sparse un risolino, e Bengal’skij sussultò e sbarrò gli occhi.

— Ma naturalmente, non mi interessano tanto gli autobus, i telefoni e l’altra…

— Attrezzatura, — suggerí il tipo a quadretti.

— Giusto, grazie, — diceva lentamente il mago con grave voce di basso, — quanto una questione ben piú importante: sono cambiati internamente, questi cittadini?

— Sí, è una questione importantissima, signore.

Tra le quinte cominciarono a scambiarsi degli sguardi e a stringersi nelle spalle; Bengal’skij era rosso, Rimskij pallido. Ma a questo punto, come se avesse intuito la nascente preoccupazione, il mago disse:

— Però la nostra conversazione è andata per le lunghe caro Fagotto, e il pubblico comincia ad annoiarsi. Facci vedere qualcosa di semplice per incominciare.

Il pubblico fece un movimento di sollievo. Fagotto e il gatto si allontanarono in direzione opposta lungo la ribalta Fagotto schioccò le dita, gridò con baldanza: — Tre, quattro! — afferrò dall’aria un mazzo di carte, lo mescolò e lo lanciò come una stella filante al gatto. Questo la prese al volo e la rimandò indietro. Il serpente satinato frusciò.

Fagotto aprí la bocca come un uccellino, e lo inghiottí interamente, carta dopo carta. Poi il gatto si inchinò, sbattendo la zampa posteriore destra, e riscosse applausi incredibili:

— Che classe! Che classe! — gridavano rapiti, dietro le quinte.

Fagotto puntò il dito verso la platea, e dichiarò:

— Adesso il mazzo di carte, egregi signori, si trova in settima fila, dal signor Parcevskij, esattamente tra un biglietto da tre rubli e una convocazione del tribunale per il mancato pagamento degli alimenti della signora Zel’kova.

Nella platea il pubblico si mosse, cominciò ad alzarsi e finalmente un signore che si chiamava proprio Parcevskij purpureo dallo stupore, trasse dal portafoglio il mazzo di carte e lo scosse in aria non sapendo che farne.

— Lo tenga per ricordo! — gridò Fagotto. — Non per niente lei diceva ieri a cena che, non fosse per il poker, la sua vita a Mosca sarebbe del tutto insopportabile.

— È vecchio, il trucco! — si udí dal loggione. — Quello della platea è uno dei vostri!

— Crede? — urlò Fagotto, socchiudendo gli occhi per meglio vedere il loggione. — In questo caso anche lei fa parte della nostra banda, perché anche lei ha il mazzo in tasca.

Nel loggione vi fu un subbuglio e si udí una voce gioiosa:

— È vero! Lo ha proprio! Qui, qui!… Aspetta! Ehi, ma sono biglietti da dieci rubli!

Quelli che sedevano in platea si voltarono. Nel loggione, un signore, sconcertato, si era trovato in tasca un pacchetto confezionato col sistema delle banche, con la scritta: «Mille rubli». I vicini gli si rovesciavano addosso, mentre lui, smarrito, grattava con l’unghia la copertina, cercando di capire se erano banconote autentiche o magiche.

— Giuro che sono veri! Soldi veri! — gridavano gioiosamente dal loggione.

— Farei anch’io una partita a carte con un mazzo del genere, — propose con allegria un grassone seduto in platea.

— Avec plaisir! — rispose Fagotto. — Ma perché con lei solo? Tutti prenderanno parte vivissima! — E ordinò: Prego di guardare in alto!… Uno! — Nella sua mano apparve una pistola; gridò: — Due! — La pistola si puntò verso l’alto. Gridò: — Tre! — Lampeggiò, tuonò, e di colpo cominciarono a cadere in sala, da sotto la cupola, e svolazzando tra i trapezi, dei biglietti bianchi.

Volteggiavano, si sparpagliavano, cadevano nel loggione, si riversavano sull’orchestra e sul palcoscenico. Alcuni secondi dopo, la pioggia di denaro s’infittí, raggiunse le poltrone, e gli spettatori cominciarono ad afferrare i biglietti.

Si alzavano centinaia di mani, gli spettatori guardavano i biglietti contro la luce del palcoscenico e riconoscevano la filigrana piú autentica e piú sacrosanta. Anche l’odore non lasciava adito a sospetti: era il delizioso odore inconfondibile del denaro appena stampato. Dapprima l’allegria, poi lo stupore invase l’intero teatro. Dovunque ronzava la parola: «Denaro, denaro», si sentivano esclamazioni e allegre risate. Qualcuno era già a quattro zampe nel passaggio tra le poltrone, frugava sotto i sedili. Molti erano saliti sulle poltrone per acchiappare le banconote sventate e capricciose.

Sui volti dei poliziotti cominciò a dipingersi la perplessità, mentre gli artisti, senza tanti complimenti, cominciarono a sbucare dalle quinte.

Dal primo ordine di palchi si udí una voce: «Perché la pigli? E mia, è da me che volava!» e un’altra: «Non spingere, se no te lo do io uno spintone che vedi!» E a un tratto si udí il rumore di uno schiaffo. Immediatamente apparve nei palchi l’elmetto di un poliziotto, e qualcuno fu condotto via.

L’eccitazione generale stava aumentando, e non si sa come sarebbe andata a finire, se Fagotto non avesse interrotto la pioggia di denaro soffiando all’improvviso in aria.

Due giovanotti, dopo essersi scambiati un’occhiata allegra e significativa, lasciarono i propri posti per andare dritti al bar. Il teatro rumoreggiava, gli occhi di tutti gli spettatori brillavano di eccitazione. No, non si sa come sarebbe andata a finire, se Bengal’skij non avesse trovato in sé un po’ di forza e non si fosse mosso. Cercando di padroneggiarsi meglio, si fregò le mani per consuetudine, e con la voce piú sonora di cui disponesse disse cosí:

— Ecco, signori, abbiamo appena visto un caso di cosiddetta ipnosi collettiva. Un’esperienza prettamente scientifica, che dimostra nel modo migliore che nella magia non esistono miracoli. Vogliamo ora pregare il maestro Woland di spiegarci questo trucco. Adesso, signori, vedrete che queste, che sembrano banconote da dieci rubli, scompariranno all’improvviso come sono apparse.

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