— Nataša! — gridò Margherita con voce acuta. — Ti sei data la crema?
— Gioia mia!! — rispose Nataša, ridestando con i suoi schiamazzi la pineta addormentata. — Mia regina francese, gliel’ho data anche a lui sulla zucca pelata, anche a lui!
— Principessa! — urlò il verro con voce piagnucolosa, portando al galoppo l’amazzone.
— Margherita Nikolaevna! Gioia mia! — gridava Nataša, galoppando a fianco di Margherita, — lo confesso, ho preso la crema! Anche noialtre, sa, vogliamo vivere e volare! Mi perdoni, sovrana, ma io non tornerò, neppure dipinta tornerò! Ah, che bellezza, Margherita Nikolaevna!…Ha chiesto la mia mano, — e Nataša indicò col dito il collo del verro ansimante e vergognoso, — me l’ha chiesta! Come mi hai chiamata, eh? — gridò Nataša, chinandosi all’orecchio del verro.
— O dea! — ululò questi, — non posso volare cosí presto! Potrei perdere qualche carta importante, Natal’ja Prokof’evna, io protesto!
— Va’ un po’ al diavolo, tu e le tue carte! — gridò Nataša, ridendo sguaiatamente.
— Che dice mai, Natal’ja Prokof’evna? Potrebbero sentirci! — urlò il verro in tono d’implorazione.
Mentre volava a fianco di Margherita, Nataša le raccontò fra le risa quanto era accaduto nella palazzina dopo che Margherita Nikolaevna aveva varcato in volo il portone.
Nataša confessò che, senza piú toccare alcuna delle cose a lei regalate, si era spogliata di furia, s’era buttata sulla crema e se l’era immediatamente spalmata addosso. E le era accaduto lo stesso che alla sua padrona. Mentre Nataša, ridendo di gioia, s’inebriava della sua magica bellezza davanti allo specchio, la porta si era aperta e le era comparso dinanzi Nikolaj Ivanovič. Era agitato, teneva in mano il camicino di Margherita Nikolaevna, nonché il proprio cappello e la cartella. Vedendo Nataša, Nikolaj Ivanovič era allibito. Riavutosi un po’, rosso come un gambero, aveva dichiarato che s’era creduto in dovere di raccattare il camicino, di riportarlo personalmente…
— Cosa non ha detto, quel mascalzone! — strillava e rideva Nataša. — Cosa non ha fatto per adescarmi! Quanto denaro ha promesso! Diceva che Klavdija Petrovna non ne avrebbe saputo nulla. Su, parla, dico bugie? — gridò Nataša al verro, e questi, tutto vergognoso, si limitò a voltare il muso dall’altra parte.
Dopo aver folleggiato in camera da letto, Nataša aveva unto con la crema Nikolaj Ivanovič, e lei stessa era rimasta sbalordita. La faccia del rispettabile inquilino del piano di sotto s’era ridotta a un grugno, ai piedi e alle mani gli erano spuntati gli zoccoli. Guardatosi nello specchio, Nikolaj Ivanovič aveva cacciato un urlo selvaggio e disperato, ma era troppo tardi. Pochi secondi dopo, cavalcato da Nataša, egli volava via da Mosca, sa il diavolo dove, singhiozzando di dolore.
— Esigo che mi venga restituito il mio aspetto normale! — rantolò e grugní a un tratto il verro con tono fra il disperato e il supplichevole. — E non intendo volare a un assembramento illegale! Margherita Nikolaevna, lei ha l’obbligo di ridurre alla ragione la sua cameriera!
— Ah, sicché adesso sarei la cameriera per te? La cameriera? — gridava Nataša, pizzicando l’orecchio del verro. — E non ero una regina? Non mi chiamavi cosí?
— Venere! — rispose lamentosamente il verro, volando sopra un torrente spumeggiante fra le rocce e sfiorando con gli zoccoli i cespugli di nocciolo.
— Venere! Venere! — proclamò vittoriosamente Nataša, mettendosi una mano sul fianco e protendendo l’altra verso la luna. — Margherita! Regina! Interceda per me, affinché mi lascino continuare a essere strega! Per lei faranno tutto, lei è potente!
E Margherita rispose:
— Va bene, lo prometto.
— Grazie! — esclamò Nataša, e all’improvviso si mise a gridare in tono brusco e anche un po’ malinconico: — Arri! Arri! Piú presto! Piú presto! Su, dài!
Ella strinse fra i calcagni i fianchi del verro, dimagriti durante la folle galoppata ed egli diede una strappata tale che riprese a fendere l’aria; dopo un attimo Nataša non era piú che un puntino nero, poi scomparve del tutto e il rumore del suo volo si dileguò.
Margherita seguitava a volare lentamente, in una contrada deserta e sconosciuta, sopra alture cosparse qua e là di massi erratici giacenti fra giganteschi pini isolati. Essa non volava sopra le vette di quei pini, ma in mezzo ai loro tronchi, da un lato inargentati dalla luna. L’ombra lieve precedeva Margherita scivolando sul suolo, adesso la luna le brillava alle spalle.
Margherita sentiva la vicinanza dell’acqua e intuiva che la meta era prossima. Al di là di quel dirupo, giú in fondo, nell’ombra, c’era un fiume. Incombeva una nebbia che s’impigliava fra i cespugli del dirupo, mentre la riva opposta era piatta e bassa. Là, sotto un solitario gruppo di alberi frondosi, vacillava la piccola luce di un falò e si scorgevano delle sagome minuscole che si muovevano. Sembrò a Margherita che di là giungesse una musica allegra e stuzzicante. Piú oltre, fin dove arrivava l’occhio, nella valle inargentata non si vedeva segno alcuno di abitazioni o di uomini.
Margherita saltò giú dal dirupo e s’affrettò a scendere verso l’acqua. Dopo la galoppata nell’aria, l’acqua l’attirava. Buttata via la spazzola, prese la rincorsa e si gettò giú a capofitto. Il suo corpo leggero s’infisse nell’acqua come una freccia, e sollevò fino alla luna una colonna liquida. Era un’acqua tiepida, come nella vasca, ed emergendo dall’abisso Margherita nuotò in quel fiume finché non fu sazia, nella completa solitudine della notte.
Vicino a lei non c’era nessuno, ma un po’ piú in là, oltre i cespugli, si sentiva sciaguattare e sbuffare: anche lí qualcuno faceva il bagno.
Margherita uscí dall’acqua e corse sulla riva. Il suo corpo ardeva dopo il bagno. Non si sentiva affatto stanca e ballava sull’erba umida.
A un tratto smise di danzare e tese l’orecchio. Il rumore s’avvicinava e dai cespugli di salice sbucò un grassone nudo con un serico cilindro nero calcato sulla nuca. I suoi piedi erano coperti di melma, sicché sembrava che il bagnante calzasse stivaletti neri. A giudicare da come stronfiava e singultava, era discretamente ubriaco, la qual cosa, del resto era confermata dall’odore di cognac che saliva dal fiume.
Scorgendo Margherita, il grassone la guardò in tralice, poi urlò, esultante:
— Che succede? Cosa vedono i miei occhi? Claudine vedova intrepida, sei proprio tu? Tu, qui? — e s’avvicinò per salutarla.
Margherita arretrò e rispose dignitosamente:
— Va’ un po’ al diavolo! Che c’entro io con Claudine? Guarda bene con chi parli! — e, dopo averci ripensato un attimo, aggiunse al suo discorso una lunga, irripetibile ingiuria. Lo sconsiderato grassone ci rimase cosí male che la sbornia gli passò di colpo.
— Ohi! — esclamò sottovoce, e trasalí. — Sia generosa e mi perdoni, illustre regina Margot! L’ho presa per un’altra. È tutta colpa del cognac, sia esso maledetto! — Il grassone piegò un ginocchio, mise via il cilindro, abbozzò un inchino e, mischiando frasi russe e francesi, cominciò a snocciolare un sacco di sciocchezze sulle tragiche nozze del suo amico Guessard a Parigi, nonché sul cognac e sulla sua costernazione per l’increscioso errore commesso.
— Potresti metterti i calzoni, figlio d’un cane, — disse Margherita, rabbonendosi.
Il grassone rise di gioia vedendo che essa non era adirata, e l’informò solennemente che era senza calzoni soltanto perché, per distrazione, li aveva lasciati in riva allo Enisej dove poc’anzi aveva fatto il bagno ma sarebbe subito volato a prenderli, visto che era vicinissimo dopo di che assicuratosi del favore e della protezione di Margherita cominciò a ritirarsi camminando a ritroso, e si ritirò fino ai momento in cui scivolò e cadde riverso nell’acqua. Ma, anche cadendo, conservò sul volto incorniciato da corti scopettoni un sorriso di giubilo e di devozione.
In quanto a Margherita, essa mandò un fischio acuto e, cavalcando la spazzola che l’aveva seguita al volo, si portò al disopra del fiume sulla riva opposta. L’ombra della collina di creta non arrivava fin là, e tutta la riva era inondata dal chiaro di luna.