I suoi sforzi, congiunti con quelli della donna inferocita, sortirono un grande risultato. Il panico scoppiò nella casa. I vetri ancora sani si spalancavano, s’affacciavano delle teste che subito dopo sparivano, e viceversa, le finestre aperte si chiudevano. Alle finestre delle case dirimpetto, sagome scure spuntavano sullo sfondo illuminato; era gente che cercava di capire come mai, nell’edificio nuovo del Dramlit, i vetri si spaccassero senza alcun motivo.
Nel vicolo la gente correva verso il palazzo del Dramlit, mentre nell’interno altri scalpicciavano per le scale, affannandosi senza costrutto. La cameriera di Kvant gridava a coloro che correvano per le scale che l’alloggio di Kvant era allagato e ad essa si uní ben presto la cameriera di Chustov dell’appartamento n. 80, situato sotto quello di Kvant. Dai Chustov l’acqua scrosciava sia in cucina che nel gabinetto. Alla fine, nella cucina di Kvant un enorme pezzo di stucco precipitò dal soffitto, mandando in frantumi tutte le stoviglie sporche, dopo di che ebbe inizio un vero diluvio, dai riquadri del graticcio inzuppato del soffitto l’acqua veniva giú come da un secchio. Allora, per le scale del primo ingresso cominciarono le grida.
Mentre passava a volo davanti alla penultima finestra del quarto piano, Margherita guardò dentro e vide un tale che, preso dal panico, s’infilava la maschera antigas. Picchiando col martello sul vetro, Margherita lo spaventò ed egli scomparve dalla stanza.
E all’improvviso l’insensata opera di devastazione ebbe termine. Scivolata giú al terzo piano, Margherita s’affacciò all’ultima finestra, velata da una leggera tenda scura. Nella stanza ardeva una lampadina debole, coperta da un paralume. In un lettino con le reti ai lati sedeva un bimbo sui quattro anni e stava in ascolto, spaventato. Adulti non ce n’erano nella stanza, evidentemente tutti erano corsi via dall’alloggio.
— Rompono i vetri, — disse il bimbo e chiamò: — Mamma! Nessuno rispose, e allora egli disse:
— Mamma, ho paura.
Margherita scostò la tenda e entrò dalla finestra.
— Ho paura, — ripeté il bimbo e cominciò a tremare.
— Non aver paura, non aver paura, piccolino, — disse Margherita, sforzandosi di addolcire la sua voce di delinquente, arrochita dal vento, — sono stati dei ragazzacci a rompere i vetri.
— Con la fionda? — chiese il bimbo, smettendo di tremare.
— Con la fionda, con la fionda, — confermò Margherita, — ma tu, devi dormire.
— È stato Sitnik, — disse il bimbo, — lui ce l’ha, una fionda.
— Ma certo, è stato lui.
Il bimbo guardò dall’altra parte con aria maliziosa e chiese:
— Ma tu, zia, dove sei?
— Io non ci sono, — rispose Margherita, — tu mi stai sognando.
— Lo pensavo anch’io, — disse il bimbo.
— Coricati, — ordinò Margherita, — metti la mano sotto la guancia e mi sognerai.
— Va bene, ti sognerò, ti sognerò, — assentí il bimbo, e si coricò subito e mise la mano sotto la guancia.
— Ti racconterò una fiaba, — riprese Margherita, e posò la mano calda sulla testa rasata. — C’era una volta una zia… Non aveva figli e in generale non aveva neppure fortuna. Ed ecco che da principio essa pianse a lungo, ma poi diventò una strega… — Margherita tacque, tolse la mano, il bimbo dormiva.
Margherita depose pian piano il martello sul davanzale e volò via dalla finestra. Nei pressi del palazzo c’era una baraonda. Sul marciapiede asfaltato, cosparso di cocci di vetro, c’erano persone che correvano e gridavano non si sa cosa. In mezzo a loro giravano già dei poliziotti. A un tratto si udí un rintocco di campana e un’autopompa rossa con la scala irruppe dall’Arbat nel vicolo.
Ma quel che sarebbe accaduto in seguito non interessava piú Margherita. Prendendo bene la mira per non andare a urtare contro qualche filo, essa strinse forte la spazzola e in un attimo si trovò sopra lo sfortunato palazzo. Sotto di lei il vicolo s’inclinò da un lato e sprofondò in basso. Al suo posto sotto i piedi di Margherita spuntò un ammasso di tetti, intersecato agli angoli da strisce scintillanti. Tutto questo deviò bruscamente da un lato, e le file di luci si stemperarono e si fusero insieme.
Margherita diede un altro strattone, e allora la massa di tetti sprofondò sotto terra, e al suo posto apparve in basso un lago di tremolanti luci elettriche; questo lago si sollevò a un tratto verticalmente, dopo di che comparve sopra la testa di Margherita, e la luna brillò sotto i suoi piedi. Margherita capí che si era ribaltata, riprese la sua posizione normale e, voltandosi indietro, vide che il lago non c’era piú, e che laggiú, dietro di lei, era rimasto soltanto un bagliore rosato all’orizzonte. Anch’esso svaní dopo un attimo, e Margherita s’accorse d’esser sola con la luna che volava a sinistra sopra di lei. Da un pezzo i capelli di Margherita s’erano aggrovigliati insieme e il chiaro di luna le lambiva il corpo con un sibilo. Dal fatto che in basso le due file di luci rade si erano fuse in due linee ininterrotte e dalla rapidità con la quale esse scomparvero, Margherita intuí che volava a una fantastica velocità, e fu sorpresa di non rimanere senza fiato.
Trascorsi pochi secondi, laggiú in lontananza, nelle tenebre della terra s’accese un nuovo bagliore di luce elettrica che venne ad abbattersi sotto i piedi della volatrice, ma subito dopo si avvitò e precipitò sulla terra. Dopo qualche secondo, di nuovo lo stesso fenomeno.
— La città! La città! — gridò Margherita.
Dopo di questo per due o tre volte essa vide sotto di sé delle specie di sciabole baluginanti racchiuse entro nere guaine aperte e comprese che erano fiumi.
Volgendo la testa in su e a sinistra, essa ammirava la luna che, come impazzita, filava indietro sopra di lei verso Mosca e, cosa strana, nello stesso tempo rimaneva immobile, cosicché si vedeva distintamente su di essa un che di misterioso e di scuro, forse un drago, forse un cavallino alato col muso aguzzo rivolto verso la città abbandonata.
In quel punto Margherita fu assalita dal pensiero che, in fondo, non avrebbe dovuto far volare cosí freneticamente la spazzola, perché si privava della possibilità d’osservare bene le cose e d’inebriarsi del volo, come si conviene. Qualcosa le diceva che là dov’era diretta l’avrebbero aspettata e che quindi era inutile sottoporsi al fastidio di una velocità e di un’altezza cosí insensate.
Margherita inclinò in avanti la spazzola la cui coda si sollevò, e, rallentando molto, scese verso terra. E questo scivolare giú, come in toboga, le procurò un grandissimo piacere. La terra si alzò verso di lei e in quella che era stata fino allora un’informe massa nera si andavano palesando i segreti e i fascini della terra in una notte di luna. La terra saliva verso Margherita e già l’investiva l’odore dei boschi verdeggianti. Sorvolò, sfiorandola quasi, la bruma che copriva un prato rugiadoso, poi uno stagno. Sotto di lei le rane cantavano in coro e da lontano giungeva il rumore di un treno che la commuoveva profondamente, chi sa perché. Margherita non tardò a scorgerlo; strisciava lento come un bruco, seminando scintille nell’aria. Oltrepassatolo, essa volò ancora sopra uno specchio d’acqua in cui galleggiava una seconda luna, poi si abbassò ancora di piú e proseguí, sfiorando quasi coi piedi le vette dei pini giganteschi.
Dietro si sentiva un greve rumore di aria solcata che cominciava a raggiungere Margherita. A poco a poco a questo rumore di un oggetto volante, forse un proiettile, si uní una risata femminile, udibile a molte verste di distanza. Margherita si voltò e s’accorse che era inseguita da un oggetto scuro e complicato. Via via che s’avvicinava a lei, si profilava sempre meglio e si cominciava a vedere che era qualcuno che volava a cavallo. Infine si delineò completamente: rallentando, Nataša raggiunse Margherita.
Interamente nuda, coi capelli scarmigliati che volavano per aria, essa cavalcava un grosso verro il quale stringeva fra le zampe anteriori una cartella, e con le posteriori martellava l’aria. Di quando in quando un paio d’occhiali a molle che sfavillavano al chiaro di luna, e poi si spegnevano, cadendogli dal naso, svolazzavano a fianco del verro, appese a un cordoncino, e il cappello gli scivolava tutto il tempo sugli occhi. Esaminatolo ben bene, Margherita riconobbe nel verro Nikolaj Ivanovič, e allora la sua risata risuonò sopra il bosco, mischiandosi con quella di Nataša.