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Ebbene, come si è detto, la cosa andò avanti cosí fino all’alba del sabato. Qui si aggiunsero dati nuovi e molto interessanti. All’aeroporto di Mosca atterrò un aereo a sei posti che arrivava dalla Crimea. Tra gli altri ne discese un passeggero strano. Era un giovanotto con la barba lunghissima, che non si era lavato da tre giorni, con occhi arrossati e spaventati, senza bagagli, e vestito in modo alquanto curioso. L’uomo portava un berretto caucasico, un mantello pure caucasico sopra la camicia da notte, e pantofole azzurre di pelle appena comperate. Non appena lasciò la scaletta da cui si scendeva dall’aereo, egli fu avvicinato. Infatti era già atteso, e poco dopo, l’indimenticabile direttore del Varietà, Stepan Bogdanovič Lichodeev, comparve davanti agli investigatori. Forní nuovi dati. Allora divenne chiaro che Woland si era intrufolato nel Varietà sotto le sembianze di un artista dopo aver ipnotizzato Stepa Lichodeev, poi era riuscito a sbattere Stepa a chi sa quanti chilometri da Mosca. In tal modo, si aggiunse altro materiale, ma questo non rese le cose piú facili, anzi, forse piú difficili ancora, perché diventava evidente che impadronirsi di un personaggio capace di giocare un brutto tiro come quello di cui era rimasto vittima Stepan Bogdanovič, non sarebbe stato semplice. Tra l’altro, Lichodeev, dietro sua propria richiesta, fu rinchiuso in una cella sicura, e davanti agli investigatori si presentò Varenucha, appena arrestato in casa sua, dove era tornato dopo una misteriosa assenza protrattasi per quasi due giorni.

Nonostante la promessa fatta ad Azazello di non mentire piú, l’amministratore incominciò proprio con una menzogna. Però, non lo si può giudicare con molta severità. Infatti, Azazello gli aveva proibito di mentire e insolentire al telefono, e in questo caso l’amministratore stava parlando senza l’ausilio di tale apparecchio. Con occhi irrequieti, Ivan Savel’evic dichiarò che il giovedí, da solo nel suo ufficio, aveva bevuto tanto da sbronzarsi, poi era andato in un posto ma non ricordava dove, poi aveva ancora bevuto della vodka stagionata, ma non ricordava dove, era rimasto disteso vicino a uno steccato, ma non ricordava dove. Solo dopo che ebbero detto all’amministratore che con il suo atteggiamento, sciocco e insensato, ostacolava l’inchiesta di un caso importante, e di questo, naturalmente, avrebbe risposto, Varenucha scoppiò a piangere e sussurrò con voce tremante, guardandosi attorno, che mentiva soltanto per paura, temendo la vendetta della banda di Woland, nelle cui mani si era già trovato, e che pregava, supplicava, bramava di essere rinchiuso in una cella blindata.

— Accidenti! E dài con questa cella blindata! — brontolò uno degli investigatori.

— Questi delinquenti li hanno proprio terrorizzati, disse l’altro che era stato da Ivanuška.

Tranquillizzarono alla bell’e meglio Varenucha, dissero che l’avrebbero protetto anche senza cella blindata, e si venne subito a sapere che non aveva affatto bevuto vodka stagionata presso uno steccato, e che erano stati in due a picchiarlo, uno coi capelli rossi e una zanna sporgente, l’altro grasso…

— Ah, quello che somiglia a un gatto?

— Sí, sí, sí, — sussurrava l’amministratore, sentendosi gelare di paura e voltandosi a ogni istante, e spiattellava ulteriori particolari sul fatto che era rimasto per due giorni nell’appartamento n. 50 in qualità di vampiro al servizio di quella banda e per poco non aveva causato la morte del direttore finanziario Rimskij…

In quel momento stavano introducendo Rimskij, trasferito da Leningrado. Però quel vecchio canuto e tremante di paura, dalla mente sconvolta, in cui era difficilissimo riconoscere il direttore di prima, non voleva assolutamente dire la verità e in questo senso si dimostrò molto ostinato. Rimskij affermava che non aveva visto nessuna Hella alla finestra del suo ufficio quella notte, e neppure Varenucha, ma si era semplicemente sentito male e, fuori di sé, era partito per Leningrado. Inutile dire che il direttore finanziario concluse la sua deposizione con la preghiera di essere rinchiuso in una cella blindata.

Annuška fu arrestata mentre tentava di rifilare a una cassiera dei grandi magazzini sull’Arbat un biglietto da dieci dollari. Il racconto di Annuška sulla gente che volava fuori dalla finestra sulla Sadovaja e sul ferro da cavallo che, secondo lei, aveva raccattato per portarlo alla polizia, fu ascoltato con attenzione.

— Il ferro era veramente d’oro con brillanti? — chiesero ad Annuška.

— Volete che non riconosca i brillanti? — rispose Annuška.

— Ma le hanno dato banconote da dieci rubli, dice?

— Volete che non riconosca le banconote da dieci rubli? — rispose Annuška.

— Be’, quand’è allora che si sono trasformate in dollari?

— Non so niente di dollari, non ho mai visto dollari, io — rispondeva Annuška con voce stridula. — Siamo nel nostro diritto! Ci hanno dato una ricompensa, e con quella compriamo della tela — . E cominciò a blaterare che lei non era responsabile del fatto che l’amministrazione della casa avesse alloggiato al quinto piano uno spirito maligno che rendeva la vita impossibile a tutti.

A questo punto l’investigatore fece cenno con la penna ad Annuška che aveva rotto le scatole a tutti, poi le firmò un lasciapassare su un foglietto verde, dopo di che, con sollievo generale, Annuška scomparve dall’edificio.

Poi seguí un’intera processione di gente, tra cui Nikolaj Ivanovič, da poco fermato unicamente a causa della stupidità della propria gelosa consorte, che al mattino aveva fatto sapere alla polizia che suo marito era scomparso. Nikolaj Ivanovič non stupí molto gli investigatori deponendo sul tavolo il buffonesco certificato da cui risultava che aveva trascorso il tempo al ballo di Satana. Quando raccontò che aveva portato in volo, nuda, la domestica di Margherita Nikolaevna fino a casa del diavolo, a bagnarsi nel fiume, e che prima gli era apparsa alla finestra Margherita Nikolaevna completamente spogliata, Nikolaj Ivanovič si scostò alquanto dalla verità. Cosí, ad esempio, non ritenne necessario menzionare che si era presentato in camera da letto tenendo in mano la camicia buttatagli addosso né che si era rivolto a Nataša chiamandola Venere. Stando alle sue parole, sembrava che Nataša fosse volata fuori dalla finestra, le si fosse messa a cavallo e lo avesse trascinato via da Mosca…

— Cedendo alla forza, sono stato costretto a sottomettermi, — raccontava Nikolaj Ivanovič, e terminò la sua narrazione con la preghiera di non farne parola a sua moglie. Il che gli fu promesso.

La testimonianza di Nikolaj Ivanovič diede la possibilità di stabilire che Margherita Nikolaevna, nonché la sua domestica Nataša, erano scomparse senza lasciare traccia. Furono prese misure per ritrovarle.

E cosí, con le indagini che non cessavano un istante, ebbe inizio la mattina del sabato. Intanto in città stavano nascendo e diffondendosi voci assolutamente assurde, in cui una minutissima porzione di verità era infiorata da rigogliosissime fandonie. Dicevano che c’era stato uno spettacolo al Varietà, dopo il quale tutti i duemila spettatori erano sbucati in strada come mamma li aveva fatti, che nella Sadovaja avevano messo le mani su una tipografia che stampava banconote false di tipo magico, che una banda aveva rapito cinque dirigenti del settore dei divertimenti ma che la polizia li aveva subito ritrovati, e molte altre cose da perdere la voglia di ripeterle.

Nel frattempo si avvicinava l’ora del pranzo, e là dove si svolgeva l’inchiesta squillò il telefono. Dalla Sadovaja comunicavano che il maledetto appartamento aveva di nuovo dato segno di vita. Dicevano che le finestre venivano aperte, che giungevano suoni di pianoforte e canti, e che avevano visto alla finestra, seduto sul davanzale a rosolarsi al sole, un gatto nero.

Verso le quattro di quel caldo pomeriggio, un folto gruppo di uomini vestiti in borghese scese da tre automobili poco prima di arrivare al n. 302 bis della Sadovaja.

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