L’uomo davanti afferrò immediatamente la borsa dalle mani di Giuda. Nello stesso istante alle sue spalle si levò un coltello e colpí l’innamorato sotto la scapola. Giuda fu scaraventato in avanti, e buttò in alto le mani con le dita rattrappite. L’uomo davanti accolse Giuda sul suo coltello e glielo immerse fino al manico nel cuore.
— Ni…sa… — disse Giuda non con la sua voce giovanile alta e pura, ma con voce bassa e piena di rimprovero, e non emise altro suono. Il suo corpo batté sulla terra con tanta violenza che la fece rintronare.
Apparve allora sulla strada una terza figura. Questa portava un mantello col cappuccio.
— Fate presto, — ordinò. Gli assassini avvolsero rapidamente in una pelle la borsa e un biglietto che il terzo porse loro, e legarono il tutto con una cordicella. Il secondo si mise l’involto in seno, poi i due assassini si precipitarono via dalla strada e l’oscurità tra gli ulivi li inghiottí. Il terzo invece si accoccolò vicino al morto e lo guardò in faccia. Nell’ombra, essa gli apparve bianca come il gesso, e di una bellezza ispirata.
Alcuni secondi dopo non c’era anima viva sulla strada.
Il corpo inanimato giaceva con le braccia allargate. Il piede sinistro era finito in una chiazza di luce lunare, cosí che risaltava nettamente ogni cinghia del sandalo. Tutto il giardino di Getsemani risuonava del canto degli usignoli.
Dove si fossero diretti i due che avevano ammazzato Giuda, nessuno lo sa, ma sl conosce la strada seguita dal terzo uomo col cappuccio. Lasciando il sentiero, s’inoltrò nel folto degli ulivi, dirigendosi verso sud. Scavalcò il recinto del giardino lontano dall’ingresso principale, all’angolo di sinistra, dove le pietre superiori del muricciolo erano franate. Poco dopo era sulla riva del Kedron. Entrò allora nell’acqua e vi camminò per un certo tempo, finché non vide in lontananza le sagome di due cavalli e di un uomo vicino. Anche i cavalli erano nel torrente. L’acqua scorreva bagnando i loro zoccoli. Il guardiano montò uno dei cavalli, l’uomo col cappuccio balzò sull’altro, e lentamente si avviarono nel torrente. Si udivano i sassi scricchiolare sotto le zampe dei cavalli. Poi i cavalieri uscirono dall’acqua, salirono sulla riva di Jerushalajim e costeggiarono al passo il muro della città. Qui, il guardiano si allontanò, e partendo di galoppo scomparve, mentre l’uomo col cappuccio fermò il suo cavallo, scese sulla strada deserta, si levò il mantello, lo rivoltò, ne tolse di sotto un elmo piatto senza cimiero che si calcò in testa. Balzò ora sul cavallo un uomo con una clamide militare e una corta spada al fianco. Toccò le redini, e il focoso cavallo partí al trotto scrollando il cavaliere. La meta non era lontana: il cavaliere si avvicinava alla porta meridionale di Jerushalajim.
Sotto l’arco della porta danzava e saltava l’irrequieta fiamma delle torce. I soldati di guardia della seconda centuria della Legione Fulminante sedevano su panche di pietra giocando ai dadi. Quando videro il militare che si avvicinava scattarono in piedi; l’uomo fece loro un cenno di mano ed entrò nella città.
La città era inondata di luci festose. A tutte le finestre scintillava la fiamma dei candelabri e dovunque, fondendosi in un coro discordante, si udivano i canti rituali. Lanciando di quando in quando un’occhiata alle finestre che davano sulla strada, il cavaliere poteva vedere gente seduta a tavola, e sopra la tavola carne di capretto e coppe di vino tra piatti con erbe amare. Fischiettando una sommessa canzoncina, il cavaliere avanzava con un trotto pacato lungo le vie deserte della città bassa verso la torre Antonia, guardando ogni tanto i candelabri a cinque bracci, mai visti altrove, che ardevano sopra il tempio, e la luna che si trovava ancora piú in alto dei candelabri.
Il palazzo di Erode il Grande non partecipava minimamente alla solennità della notte pasquale. Nei locali di servizio del palazzo, volti a sud, dove si erano sistemati gli ufficiali della coorte romana e il legato della legione, brillavano luci, e là si sentiva movimento e vita. Invece la parte anteriore, quella delle cerimonie, dove si trovava l’unico e involontario abitatore del palazzo — il procuratore — , con le sue colonne e le statue dorate, sembrava tutta accecata sotto la chiarissima luce lunare. Lí, all’interno del palazzo, regnavano l’oscurità e il silenzio.
Come aveva detto ad Afranio, il procuratore non aveva voluto ritirarsi nelle stanze interne. Aveva dato ordine di preparargli il letto sul balcone, là dove aveva pranzato, e dove al mattino aveva tenuto l’interrogatorio. Il procuratore si coricò, ma il sonno non volle visitarlo. La nuda luna stava alta nel cielo puro, e per alcune ore il procuratore non ne distolse gli occhi.
Verso mezzanotte il sonno ebbe finalmente pietà dell’egemone. Con uno sbadiglio convulso, il procuratore sfibbiò il mantello e lo gettò via, tolse dalla tunica la cinghia con un largo coltello d’acciaio infilato nel fodero, la mise sulla scranna vicina al letto, si tolse i sandali e si coricò. Immediatamente Banga salí sul suo letto e gli si accovacciò vicino, testa contro testa, e il procuratore posando una mano sul collo dell’animale, chiuse finalmente gli occhi. Solo allora si addormentò anche il cane.
Il letto si trovava nella semioscurità, protetto dalla luna da una colonna, ma dai gradini di accesso si stendeva verso il letto un nastro di luce lunare. E il procuratore, non appena ebbe perso il collegamento con quello che c’era intorno a lui nella realtà, subito si mosse per la strada luccicante e la risalí, direttamente verso la luna. Nel sogno sorrise perfino di felicità, tanto ogni cosa si risolveva in modo cosí splendido e irripetibile su quella diafana strada azzurra.
Era seguito da Banga, e vicino a lui camminava il filosofo errante. Discutevano qualcosa di molto complesso e importante, e nessuno dei due riusciva a vincere l’altro. Non si accordavano su nessun punto, e questo rendeva la loro discussione particolarmente interessante e interminabile. S’intende che l’esecuzione di quel giorno era stata un mero equivoco: il filosofo che aveva escogitato una cosa cosí incredibilmente assurda come la bontà universale degli uomini, gli camminava accanto, quindi era vivo. E, naturalmente, sarebbe stato orribile anche il solo pensiero che un uomo simile potesse essere giustiziato. L’esecuzione non era avvenuta! Non era avvenuta! Ecco in che consisteva il fascino del viaggio su per la scala lunare.
Vi era tanto tempo libero quanto ne occorreva, il temporale sarebbe scoppiato solo verso sera, e la codardia era indubbiamente uno dei vizi piú terribili. Cosí diceva Jeshua Hanozri. No, filosofo, ti obietto: è il vizio piú terribile di tutti!
Ecco, per esempio, non aveva avuto paura l’attuale procuratore della Giudea, allora tribuno della legione, quella volta nella Valle delle Vergini, quando i germani infuriati avevano quasi dilaniato il gigantesco Ammazzatopi! Ma per carità, filosofo! Possibile che tu, con la tua intelligenza, possa pensare che, per causa di un uomo che ha commesso un delitto contro Cesare, il procuratore della Giudea si rovini la carriera?
— Sí, sí… — gemeva e singhiozzava nel sonno Pilato.
Certo che se la sarebbe rovinata. Al mattino non l’avrebbe fatto, ma adesso, di notte, soppesato tutto, era pronto a rovinarsela. Era pronto a tutto, pur di salvare dall’esecuzione quel pazzo sognatore e medico completamente innocente!
— D’ora in poi staremo sempre insieme, — gli diceva in sogno il lacero filosofo-vagabondo, comparso, non si sa come, sulla strada del Cavaliere Lancia d’Oro, — non ci sarà l’uno senza l’altro! Se parleranno di me, parleranno subito anche di te! Di me, trovatello, figlio di genitori ignoti, e di te, figlio del re degli astrologi e della figlia del mugnaio, la bellissima Pila!
— Sí, non dimenticarmi, parla di me, figlio dell’astrologo, — pregava in sogno Pilato. E avutone assicurazione da un cenno del capo del mendico di En-Sarid, che gli camminava accanto, il crudele procuratore della Giudea piangeva e rideva dalla gioia nel sogno.