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— Ma si farà come voglio io?

Azazello guardò ironicamente Margherita con la coda dell’occhio strabico, poi, senza farsi scorgere, voltò dall’altra la testa rossa e scoppiò in una risatina.

— Avanti, lo faccia, uffa, che tormento, — brontolò Woland, e girando il globo si mise a esaminare su di esso non si sa che particolare, dando a vedere che s’occupava d’altro mentre discorreva con Margherita.

— Dunque, Frida… — suggerí Korov’ev.

— Frida! — gridò Margherita con voce acuta.

L’uscio si spalancò e una donna scarmigliata, nuda, ma che non dava piú segno alcuno d’essere ubriaca, irruppe nella stanza con occhi disperati e protese le due mani verso Margherita, la quale disse maestosamente:

— Sei perdonata. Non ti porgeranno piú il fazzoletto.

Si udí l’urlo di Frida, essa cadde bocconi sul pavimento e si prosternò allargando le braccia davanti a Margherita. Woland fece un gesto d’insofferenza e Frida scomparve.

— La ringrazio, addio, — disse Margherita, e si alzò.

— Be’, che ne pensi, Behemoth, — disse Woland, — non vogliamo lucrare sul gesto d’una persona poco pratica, in una notte di festa — . Si volse verso Margherita: — Dunque, questo non conta, perché io non ho fatto niente. Che cosa vuole per sé?

Ci fu un momento di silenzio e lo ruppe Korov’ev, che sussurrò all’orecchio di Margherita:

— Donna adamantina, questa volta le consiglio d’essere un po’ piú ragionevole. Altrimenti, sa, la fortuna potrebbe anche sfuggirle.

— Voglio che subito, in quest’attimo stesso, mi venga restituito il mio amante, il Maestro, — disse Margherita, e uno spasimo le contrasse il viso.

Allora una folata di vento irruppe nel1a stanza, cosicché la fiamma delle candele nei candelabri si smorzò, la tenda pesante davanti alla finestra si scostò da un lato, la finestra si spalancò e lontano, su in alto si scoperse la luna piena, ma non quella del mattino, bensí quella di mezzanotte. Dal davanzale cadde sul pavimento un drappo verdognolo di luce notturna, e in esso apparve il visitatore notturno di Ivanuška, che aveva detto di chiamarsi il Maestro. Era vestito come all’ospedale, in vestaglia, pantofole e col berrettino nero dal quale non si separava mai. Il suo volto non rasato era contratto da una smorfia, egli storceva gli occhi, pieni di un dissennato timore, verso le fiamme delle candele, mentre un torrente di luce lunare ribolliva intorno a lui.

Margherita lo riconobbe subito, diede in un gemito, alzò le mani battendole insieme e gli corse incontro. Lo baciava sulla fronte, sulle labbra, si stringeva alla sua guancia ispida, e le lacrime a lungo trattenute le fluivano ora giú per il viso. Aveva pronunziato una parola sola, e la ripeteva come insensata:

— Tu… tu… tu…

Il Maestro l’allontanò da sé e disse con voce sorda:

— Non piangere, Margot, non tormentarmi, sono gravemente ammalato — . Si aggrappò con la mano al davanzale come se volesse balzarvi sopra e fuggire, digrignò i denti, e guardando attentamente quelli che stavano seduti gridò:

— Ho paura, Margot! Ricomincio a soffrire di allucinazioni…

I singhiozzi soffocavano Margherita, essa sussurrava, con voce strozzata:

— No, no, no… non devi temer nulla… ci sono io con te. ci sono io con te…

Korov’ev, con una mossa abile e quasi impercettibile spinse una sedia verso il Maestro e questi vi si lasciò cadere; Margherita si gettò in ginocchio, si strinse al fianco del malato e non si mosse piú. Nel suo orgasmo non s’era accorta che, quasi repentinamente, aveva cessato d’esser nuda, adesso aveva indosso una mantella di seta nera. Il malato aveva chinato il capo e guardava in terra con occhi torvi e dolenti.

— Già, — disse Woland dopo una pausa, — l’hanno conciato per le feste — . E ordinò a Korov’ev:

— Su, cavaliere, da’ qualcosa da bere a quest’uomo.

Margherita cercava di persuadere il Maestro con voce tremante:

— Bevi, bevi! Hai paura? No, no, credi a me, essi ti aiuteranno!

Il malato prese il bicchiere e bevve quel che c’era dentro, ma la sua mano sussultò e il bicchiere, cadendo, s’infranse ai suoi piedi.

— Porta fortuna porta fortuna! — sussurrò Korov’ev a Margherita. — Vede, sta già tornando in sé.

Infatti, lo sguardo del malato non era piú cosí truce e inquieto.

— Ma sei tu, Margot? — chiese l’ospite lunare.

— Non dubitare, sono io, — rispose Margherita.

— Ancora! — ordinò Woland.

Quando il Maestro ebbe tracannato il secondo bicchiere, i suoi occhi divennero vivi e coscienti.

— Oh, bene, adesso è un’altra cosa, — disse Woland, socchiudendo le palpebre, — ora parleremo. Chi è lei?

— Adesso non sono nessuno, — rispose il Maestro, e un sorriso gli storse la bocca.

— Di dove arriva?

— Da una casa di dolore. Sono un malato di mente, — rispose il nuovo venuto.

Margherita non poté sopportare quelle parole e scoppiò di nuovo in lacrime. Poi, asciugandosi gli occhi, gridò:

— Che parole orribili! Che parole orribili! Messere, l’avverto che egli è un Maestro! Lo curi, egli lo merita!

— Lei sa con chi sta parlando? — chiese Woland al nuovo arrivato. — Sa in casa di chi si trova?

— Lo so, — rispose il Maestro, — al manicomio avevo per vicino quel ragazzo, Ivan Bezdomnyj. Mi ha parlato di lei.

— Già, è vero, — rispose Woland, — ho avuto il piacere d’incontrarmi con quel giovanotto agli stagni Patriaršie. Per un pelo non ha fatto impazzire anche me, dimostrandomi che io non esisto. Ma ci crede che io sono veramente io?

— Bisogna crederci, — disse il nuovo venuto, — ma naturalmente, sarebbe assai piú comodo ritenere che lei è il prodotto d’un’allucinazione. Mi scusi, — soggiunse il Maestro, riprendendosi.

— Be’, perché no? Se è piú comodo, lo ritenga pure, — rispose cortesemente Woland.

— No, no! — disse Margherita, spaventata, e scosse il Maestro per le spalle. — Rientra in te! Dinanzi a te c’è realmente lui!

A questo punto il gatto intervenne di nuovo:

— Io, però, assomiglio per davvero a un’allucinazione. Osservate un po’ il mio profilo al chiaro di luna — . Il gatto s’infilò nella striscia di luce lunare e stava per aggiungere ancora qualcosa, ma fu pregato di star zitto ed egli rispose: — Bene, bene, sono pronto a tacere. Sarò un’allucinazione taciturna, — e non fiatò piú.

— Dica un po’, perché Margherita la chiama Maestro? domandò Woland.

L’altro sogghignò e disse:

— È una debolezza perdonabile. Essa ha un concetto troppo alto del romanzo che ho scritto.

— Un romanzo su che cosa?

— Un romanzo su Ponzio Pilato.

A questo punto le fiammelle delle candele ripresero a ondeggiare e a guizzare, i piatti tintinnarono sulla tavola. Woland scoppiò in una risata tonante, ma quel riso non spaventò e non meravigliò nessuno. Behemoth, chi sa perché, applaudí.

— Su che cosa, su che cosa? Su chi? — disse Woland, e smise di ridere. — Questa è grossa. E non poteva trovare un altro argomento? Faccia un po’ vedere — . E Woland tese la mano con la palma all’insú.

— Io, purtroppo, non posso farlo, — rispose il Maestro, perché l’ho bruciato nella stufa.

— Scusi, non ci credo, — replicò Woland, — non può essere, i manoscritti non bruciano — . Si voltò verso Behemoth e disse: — Su, Behemoth, dammi qua il romanzo.

Il gatto, all’istante, saltò giú dalla seggiola e tutti videro che era seduto su un grosso pacco di manoscritti. Con un inchino, il gatto porse a Woland l’esemplare che stava sopra gli altri. Margherita si mise a tremare e gridò, commovendosi di nuovo fino alle lacrime:

— Eccolo, il manoscritto! Eccolo!

Si precipitò verso Woland e aggiunse, rapita:

— Onnipotente! Onnipotente!

Woland prese in mano l’esemplare che gli era stato dato, lo rivoltò, lo mise da parte e in silenzio, senza sorridere, piantò gli occhi in faccia al Maestro. Ma questi, non si sa perché, fu preso dalla tristezza e dalla paura, si alzò dalla seggiola, si torse le mani e, rivolto alla luna lontana, cominciò a mormorare, sussultando:

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