Hella e il gatto fecero la pace, e in segno di riconciliazione si baciarono. La carta fu tratta fuori di sotto al guanciale e controllata. Nessun punto, oltre a quello perforato da Azazello, era stato toccato.
— Non può essere, — seguitava ad affermare il gatto, guardando attraverso la carta la luce del candelabro.
L’allegra cena continuava. Le candele si coprivano di scolature di cera. Il calore del caminetto, asciutto e profumato, si diffondeva a ondate nella stanza. Dopo quella gran mangiata, un senso di beatitudine aveva invaso Margherita. Essa guardava gli anelli di fumo grigio-azzurro che uscivano dal sigaro di Azazello e salivano lenti nel camino e il gatto che li infilava sulla punta della spada. Non aveva voglia d’andarsene, benché, secondo i suoi calcoli, fosse già tardi. A giudicare da tutto l’insieme, dovevano essere quasi le sei di mattina. Approfittando di una pausa, Margherita si rivolse a Woland e disse timidamente:
— Forse è ora che me ne vada… è tardi…
— Perché tanta fretta? — chiese Woland in tono cortese ma piuttosto asciutto. Gli altri non fiatarono, fingendo un vivo interesse per gli anelli di fumo che uscivano dai sigari.
— Ma è ora che me ne vada, — ripeté Margherita, tutta sconcertata, e si voltò come per cercare una mantella o una cappa. A un tratto la sua nudità aveva cominciato a darle fastidio. Si alzò da tavola. Woland prese dal letto la sua sudicia e logora vestaglia, e Korov’ev la gettò sulle spalle di Margherita.
— Grazie, Messere, — disse Margherita con voce che si sentiva appena e diede un’occhiata interrogativa a Woland. Questi le rispose con un sorriso cortese e indifferente. Di colpo una nera angoscia strinse il cuore di Margherita. Si sentí ingannata. Nessuno, a quanto pareva, aveva in mente di offrirle una ricompensa per tutti i servigi prestati durante il ballo, e nessuno tentava di trattenerla. E d’altra parte le era ben chiaro che, uscendo di lí, non avrebbe piú avuto dove andare. L’idea, balenatale in mente, che avrebbe dovuto tornare alla palazzina scatenò dentro di lei un accesso di disperazione. E se avesse chiesto lei stessa, come le aveva consigliato lusinghevolmente Azazello nel giardino Aleksandrovskij? «No, a nessun costo!», disse fra sé.
— Stia bene, Messere, — disse ad alta voce, e pensò: «Se soltanto riesco a uscire di qua, arriverò fino al fiume e mi annegherò».
— Su, si sieda, — disse all’improvviso Woland in tono di comando.
Margherita si mutò in viso e si mise a sedere.
— Forse ha qualcosa da dire prima d’andarsene?
— No, Messere, non ho niente da dire, — rispose con fierezza Margherita, — eccetto che se lei ha ancora bisogno di me, sono pronta a fare tutto quello che vorrà. Non sono affatto stanca e mi sono molto divertita al ballo. E quindi, anche se fosse ancora continuato, avrei di nuovo offerto il mio ginocchio affinché migliaia di pendagli da forca e d’assassini lo baciassero — . Margherita guardava Woland come attraverso un velo, gli occhi le si erano riempiti di lacrime.
— È giusto! Lei ha pienamente ragione! — gridò Woland con voce tonante e terribile. — Cosí bisognava fare!
— Cosí bisognava fare, — ripeté come un’eco il seguito di Woland.
— Noi abbiamo voluto metterla alla prova, — disse Woland, — non chieda mai nulla a nessuno! Mai nulla a nessuno e tanto meno a quelli che sono piú forti di lei. Ci penseranno loro a offrire e daranno tutto. Si metta a sedere, donna orgogliosa — . Woland le strappò di dosso la sudicia vestaglia, e Margherita si ritrovò di nuovo seduta sul letto accanto a lui. — Dunque, Margot, — proseguí Woland, addolcendo la voce, — cosa vuole per aver fatto oggi gli onori di casa mia? Che cosa desidera per aver partecipato nuda a questo ballo? Quanto stima il suo ginocchio? Quali perdite le hanno cagionato i miei invitati che lei ha chiamato dianzi pendagli da forca? Parli! E adesso parli pure senza soggezione, dato che gliel’ho proposto io.
Il cuore di Margherita si mise a batter forte, essa sospirò forte, cominciò a riflettere.
— Su, avanti, si faccia animo! — l’incoraggiò Woland: Svegli la sua fantasia, la sproni! Il solo fatto d’aver assistito all’assassinio di quel furfante matricolato d’un barone merita che una persona sia ricompensata, specie se questa persona è una donna. Dunque, signora?
Margherita si sentí mancare il fiato, stava già per proferire le parole vagheggiate e preparate dentro di sé, quando a un tratto impallidí, aperse la bocca e sbarrò gli occhi. «Frida!… Frida! Frida! — le gridò nell’orecchio una voce insistente, supplichevole. — Mi chiamo Frida!» e Margherita, incespicando nelle parole, disse:
— Sicché, dunque… posso chiedere una cosa?
— Esigere, esigere, donna mia, — rispose Woland, con un sorriso di comprensione, — esigere una cosa.
Ah, come Woland, ripetendo le parole stesse di Margherita, aveva sottolineato abilmente e chiaramente «una cosa».
Margherita sospirò ancora una volta e disse:
— Voglio che smettano di porgere a Frida il fazzoletto col quale essa soffocò il suo bambino.
Il gatto alzò gli occhi al cielo e sospirò rumorosamente, ma non disse nulla, ricordandosi evidentemente della tirata d’orecchi durante il ballo.
— Dato che, — prese a dire Woland, sogghignando, — è naturalmente del tutto esclusa la possibilità che lei abbia ricevuto una bustarella da quella stupida di Frida — poiché ciò sarebbe incompatibile con la sua dignità regale — , non so proprio che fare. Rimane, forse, una cosa sola: procurarsi degli stracci e tappare con essi tutte le fessure della mia camera da letto.
— Di che sta parlando, Messere? — si stupí Margherita dopo aver sentito quelle parole davvero incomprensibili.
— Sono pienamente d’accordo con lei, Messere, — intervenne il gatto, — sí, proprio degli stracci! — e, dal dispetto, batté la zampa sulla tavola.
— Sto parlando della pietà, — spiegò Woland, senza staccare da Margherita il suo occhio infocato, — talvolta essa s’insinua del tutto inattesa e insidiosa, nelle fessure piú anguste. Perciò sto parlando di stracci…
— Anch’io sto parlando di questo! — esclamò il gatto e a ogni buon conto si scostò da Margherita, coprendosi gli orecchi aguzzi con le zampe spalmate di crema rosa.
— Vattene, — gli disse Woland.
— Non ho ancora preso il caffè, — rispose il gatto, — perché dovrei andarmene? È mai possibile, Messere, che in una notte di festa i commensali vengano divisi in due categorie? Gli uni di prima, e gli altri — come ebbe a dire quel triste avaraccio di barista — di seconda freschezza?
— Sta’ zitto, — gli ordinò Woland e, rivolgendosi a Margherita, le chiese: — Lei, a giudicare da tutto quanto, è una persona d’una bontà eccezionale? Una persona altamente morale?
— No, — rispose con forza Margherita, — so che con lei si può discorrere soltanto sinceramente, e sinceramente le dico che sono una persona leggera. Le ho chiesto per Frida soltanto perché sono stata cosí imprudente da darle una fondata speranza. Essa aspetta, Messere, essa crede nel mio potere. E se restasse delusa, mi troverei in una situazione terribile. Non avrei piú pace finché vivo. Non c’è nulla da fare, è andata cosí.
— Ah, — disse Woland, — ora capisco.
— E lo farà — domandò sottovoce Margherita.
— Nemmeno per idea — rispose Woland — il fatto è, cara regina, che c’è stata una piccola confusione. Ogni dicastero deve occuparsi dei propri affari. Non lo nego, le nostre possibilità sono piuttosto grandi, sono assai piú grandi di quanto presuma certa gente, non molto perspicace…
— Eh, sí, sono assai piú grandi, — non seppe trattenersi dall’interloquire il gatto, visibilmente orgoglioso di tali possibilità.
— Zitto, che il diavolo ti porti! — gli disse Woland e proseguí, rivolto a Margherita: — Ma che senso c’è a fare qualcosa che è di competenza di un altro — chiamiamolo cosí — dicastero? Quindi io non lo farò, e lo farà lei stessa.