— Per favore, mi dica… — la donna dietro il banco esclamò:
— Signore, lei ha la testa piena di tagli!
Cinque minuti dopo, il barista era fasciato con garza, ed era venuto a sapere che i migliori specialisti di malattie del fegato erano considerati i professori Bernadskij e Kuz’min, chiese quale dei due abitasse piú vicino, s’infiammò di gioia apprendendo che Kuz’min abitava a due passi da lí, in una palazzina bianca, e due minuti dopo era sul posto.
L’ambiente era vecchio, ma molto accogliente. Il barista ricordò poi che aveva incontrato per prima una governante vecchia vecchia che voleva prendergli il cappello, ma poiché egli non l’aveva, se n’era andata via masticando con la bocca sdentata.
Al suo posto apparve, presso lo specchio, e, forse, sotto una specie di arco, una donna di mezza età, la quale disse subito che poteva fissargli una visita per il 19, non prima. Il barista intuí subito dov’era la sua salvezza. Guardò con occhi scialbi al di là dell’arco, dove tre persone aspettavano in quella che doveva essere un’anticamera, e sussurrò:
— Sono mortalmente malato…
La donna guardò perplessa la testa fasciata, esitò, poi disse:
— Ma sí… — e lo fece passare.
Nello stesso istante si aprí la porta di fronte, vi balenò un paio di occhiali a molla d’oro. La donna col camice disse:
— Signori, questo malato passa subito.
Il barista non fece in tempo a guardarsi intorno che si ritrovò nello studio del professor Kuz’min. In quella stanza oblunga non c’era niente di terribile, di solenne, di ospedaliero.
— Che cos’ha? — chiese con voce gradevole il professor Kuz’min, guardando con una certa preoccupazione la testa fasciata.
— Ho appena saputo da fonti autorevoli, — rispose il barista, guardando incupito un gruppo fotografico sotto vetro, — che nel febbraio dell’anno prossimo io morrò di cancro al fegato. La supplico di debellarlo!
Il professor Kuz’min da seduto che era si buttò contro l’alto schienale gotico della poltrona di cuoio.
— Scusi, non la capisco… Lei… è stato dal medico? Perché ha la testa fasciata?
— Ma che medico… Lo vedesse… — rispose il barista, e cominciò a battere i denti. — Non faccia caso alla testa non c’entra… Se ne infischi della mia testa, non ha niente a che vedere… Il cancro del fegato, la prego di debellarlo!…
— Ma scusi, chi gliel’ha detto?!
— Gli creda! — implorò il barista. — Lui lo sa!
— Non capisco niente! — diceva il professore stringendosi nelle spalle e facendo scorrere indietro la poltrona. Come può sapere quando lei morrà? Tanto piú se non è un medico!
— Nella quarta corsia, — rispose il barista.
Il professore guardò il paziente, la sua testa, i pantaloni umidi, e pensò: «Ci mancava solo questo: un pazzo…» Chiese:
— Lei beve vodka?
— Non l’ho mai assaggiata, — rispose il barista.
Un minuto dopo era svestito, disteso su un freddo divano di tela cerata, e il professore gli tastava il ventre. A questo punto bisogna dire che il barista divenne di umore molto piú allegro. Il professore affermava categoricamente che nello stato attuale, o almeno in quel preciso istante, il barista non presentava alcun sintomo di cancro, ma visto che… visto che aveva paura, e che qualche ciarlatano lo aveva spaventato, bisognava fare tutti gli esami…
Il professore scriveva foglietti su foglietti, spiegando dove andare e che cosa portare. Inoltre scrisse un biglietto per il neuropatologo professor Bure, dicendo al barista che aveva i nervi in uno stato spaventoso.
— Quanto le devo, professore? — chiese il barista con voce tenera e tremante, tirando fuori il portafoglio gonfio.
— Faccia lei, — rispose secco e brusco il professore.
Il barista tirò fuori trenta rubli e li pose sul tavolo, poi con una dolcezza inattesa, quasi a imitare la mossa vellutata di un gatto, sopra le banconote da dieci rubli, pose, facendolo tintinnare, un rotolino avvolto in carta da giornale.
— Che cos’è? — chiese Kuz’min arricciandosi un baffo.
— Li accetti, signor professore, — sussurrò il barista, — la supplico, debelli il mio cancro!
— Si riprenda immediatamente il suo oro, — disse il professore, orgoglioso di sé. — Farebbe meglio a sorvegliare i suoi nervi. Domani stesso porti l’orina da analizzare, non beva molto tè e mangi tutto senza sale.
— Anche la minestra? — chiese il barista.
— Tutto senza sale, — ordinò Kuz’min.
— Eeh! — esclamò malinconico il barista, guardando intenerito il professore, poi si riprese le monete e indietreggiò verso la porta.
Quella sera il professore aveva pochi pazienti e l’ultimo se n’era andato con l’approssimarsi del crepuscolo. Togliendosi il camice, il professore diede un’occhiata al punto dove il barista aveva lasciato le banconote, e vide che non ce n’era l’ombra, ma al loro posto c’erano invece tre etichette di Abrau-Djurso.[17]
— Ma che roba! — borbottò Kuz’min, strascicando la falda del camice e toccando i pezzi di carta. — Non è solo schizofrenico, ma anche un furfante! Ma non capisco che cosa volesse da me. Il biglietto per l’esame dell’orina? Oho!… Ha rubato i cappotti! — E il professore corse in anticamera, sempre col camice infilato su un braccio solo. — Ksenija Nikitisna! — gridò con voce acuta sulla porta dell’anticamera. — Guardi un po’ se i cappotti ci sono tutti?
I cappotti c’erano tutti. Quando però il professore tornò alla sua scrivania dopo essersi finalmente tolto il camice, sembrò mettere radici nel pavimento, con lo sguardo concentrato sulla scrivania. Nel punto dove prima stavano le etichette c’era un gattino nero, un orfanello, con un musetto triste, e miagolava sopra un piattino pieno di latte.
— Ma che roba è questa, scusate?! Questa poi… — E Kuz’min sentí che la nuca gli era diventata fredda.
Al grido sommesso e lamentoso del professore arrivò di corsa Ksenija Nikitisna, e lo calmò subito dicendo che uno dei pazienti gli aveva di certo lasciato di nascosto il gattino, e che queste cose capitano spesso ai professori.
— Saranno poveri, — spiegò Ksenija Nikitisna, — mentre da noi, naturalmente…
Cercarono di indovinare chi poteva averlo portato. I sospetti caddero su una vecchietta che aveva un’ulcera allo stomaco.
— Certo che è lei, — diceva Ksenija Nikitisna, — avrà pensato: «Io devo morire lo stesso, ma mi dispiace per il gattino».
— Ma scusi! — esclamò Kuz’min. — E il latte?… Ha pure portato il latte? E il piattino, eh?
— L’ha portato in una boccetta, e qui l’ha versato nel piattino, — spiegò Ksenija Nikitisna.
— Comunque, porti via il gatto e il piattino, — disse Kuz’min, ed accompagnò lui stesso alla porta Ksenija Nikitisna. Quando tornò, l’ambiente era di nuovo cambiato.
Appendendo il camice all’attaccapanni, il professore udí delle risate nel cortile. Diede un’occhiata alla finestra e, naturalmente, trasecolò. Attraverso il cortile, verso l’ala opposta della casa, correva una signora con la sola sottoveste addosso. Il professore conosceva perfino il suo nome: Mar’ja Aleksandrovna. Chi rideva era un bambino.
— Che roba è questa? — disse con disprezzo Kuz’min.
Dietro la parete, nella camera di sua figlia, un grammofono attaccò il fox-trott Alleluja, e nello stesso istante il professore udí alle proprie spalle il cinguettio di un passerotto. Si voltò, e vide un grosso passero saltellare sulla sua scrivania.
«Hm… calma! — pensò il professore. — È volato dentro quando io mi sono allontanato dalla finestra. Tutto è a posto!», ordinò a se stesso, pur sentendo che tutto era fuori posto, e soprattutto per colpa del passero, naturalmente. Esaminandolo, il professore si convinse subito che non era un passero comune. L’osceno uccello zoppicava dalla zampa sinistra, si vedeva che faceva il lezioso, trascinandola, e saltellava con movimenti sincopati, insomma ballava il fox-trot al suono del grammofono e, come un ubriaco davanti al banco di un bar, faceva lo smargiasso a piú non posso, guardando con insolenza il professore.