— Una coppa di vino? Bianco? Rosso? Il vino di quale paese preferisce a quest’ora del giorno?
— Grazie tante… non bevo…
— Fa male! Vuol fare allora una partita ai dadi? O ama qualche altro gioco? Il domino, le carte?
— Non gioco, — replicò il barista, ormai stanco.
— Malissimo! — concluse il padrone di casa. — Mi scusi, ma qualcosa di poco buono si nasconde negli uomini che evitano il vino, il gioco, la compagnia di donne affascinanti, la conversazione conviviale. Questi uomini, o sono gravemente ammalati, oppure odiano in segreto il prossimo.
È vero, possono esserci delle eccezioni. Tra gli uomini che si sono seduti con me a una tavola imbandita vi sono stati dei vigliacchi strabilianti!… Bene, mi dica quello che ha da dirmi.
— Ieri, lei si è degnato di eseguire dei trucchi…
— Io? — esclamò stupefatto il mago. — Quando mai? Non mi si addice neppure!
— Mi perdoni, — disse il barista interdetto. — Eppure…lo spettacolo di magia nera…
— Ah sí, sí! Caro mio, le svelerò un segreto. Non sono affatto un artista: avevo soltanto voglia di vedere moscoviti in massa, e il posto migliore per fare questo è un teatro. Allora il mio seguito — fece un cenno verso il gatto ha organizzato questo spettacolo, e io mi sono limitato a starmene seduto e a guardare i moscoviti. Ma non si spaventi, e mi dica piuttosto che cosa, in relazione a quello spettacolo, l’ha spinto qui?
— Ecco, vede, tra l’altro, i biglietti sono volati giú dal soffitto… — Il barista abbassò la voce e si guardò attorno con imbarazzo. — Be’, tutti li hanno presi. E cosí, viene al bar un giovanotto, mi dà dieci rubli, io gli do il resto di otto e cinquanta… Poi un altro…
— Anche lui un giovanotto?
— No, uno anziano. Un terzo, un quarto… Io continuo a dare il resto… Oggi poi mi metto a controllare la cassa, e invece dei rubli trovo carta straccia. Al buffet mancano centonove rubli.
— Ahi-ahi-ahi! — esclamò l’artista. — Possibile che credessero fossero banconote vere? Non posso ammettere che l’abbiano fatto di proposito.
Il barista si guardò intorno con una certa aria torva e triste, ma non disse nulla.
— Possibile che fossero truffatori? — chiese preoccupato il mago al suo ospite. — Possibile che tra i moscoviti ci siano dei truffatori?
In risposta, il barista sorrise con tanta amarezza che cadde ogni dubbio: sí, tra i moscoviti c’erano dei truffatori.
— È abietto! — si sdegnò Woland. — Lei è povero… Lei è povero, vero?
Il barista ritirò la testa tra le spalle in modo che si vide che era un uomo povero.
— Quanti soldi ha da parte?
La domanda era posta con tono compassionevole, eppure non si può non riconoscere che una domanda del genere era indelicata. Il barista esitò.
— Duecentoquarantanovemila rubli in cinque casse di risparmio, — echeggiò dalla stanza vicina una voce rotta, e a casa, sotto il pavimento, duecento pezzi d’oro da dieci rubli.
Sembrava che il barista si fosse saldato al suo sgabello.
— Sí, non è una gran somma, — disse Woland con condiscendenza al suo ospite, — anche se, a ben guardare, a lei non serve. Quand’è che morrà?
A questo punto il barista si ribellò.
— Questo non lo sa nessuno, e non riguarda nessuno, rispose.
— Figuriamoci se non lo si sa, — si sentí provenire dallo studio quella stessa voce volgare. — E che è? Il binomio di Newton? Morrà tra nove mesi, nel febbraio dell’anno prossimo, per un cancro al fegato, nella clinica dell’Università di Mosca, quarta corsia.
Il barista divenne giallo in volto.
— Nove mesi… — contava pensieroso Woland. — Duecentoquarantanovemila… fa, in cifra tonda, ventisettemila al mese… è un po’ poco, ma, a vivere modestamente, bastano… E poi ci sono le monete d’oro…
— Non riuscirà a cambiarle, — s’intromise la stessa voce, raggelando il cuore del barista. — Alla morte di Andrej Fokič, la casa sarà subito demolita e le monete saranno inviate alla Banca di stato.
— Però io non le consiglierei di andare in clinica, — continuò l’artista. — Che senso ha morire in una corsia, con l’accompagnamento dei gemiti e dei rantoli dei malati inguaribili? Non sarebbe meglio organizzare con quei ventisettemila rubli una bella festa e prendere del veleno, trasferirsi nell’altro mondo al suono della musica, circondato da belle ragazze ebbre e da amici scanzonati?
Il barista sedeva immobile ed era molto invecchiato.
Aveva gli occhi cerchiati, le guance erano flaccide e la mascella inferiore penzolava.
— Però, stiamo perdendo tempo a fantasticare, — esclamò il padrone di casa. — Veniamo al concreto. Faccia vedere la sua carta straccia.
Pieno d’emozione, il barista tolse dalla tasca un pacchetto, lo svolse e impietrí: nel pezzo di giornale c’erano banconote da dieci rubli.
— Carissimo, lei è davvero ammalato, — disse Woland stringendosi nelle spalle.
Il barista, con un sorriso insensato, si alzò dallo sgabello.
— Aa… — balbettò, — e se di nuovo… dico…
— Hm… — rifletté l’artista, — be’, allora torni qui. Sarà il benvenuto. Lieto di aver fatto la sua conoscenza…
Subito balzò fuori dallo studio Korov’ev, afferrò la mano del barista, cominciò a scuoterla e a pregare Andrej Fokič di salutare tutti, proprio tutti. Con la testa piena di confusione, il barista si mosse verso l’anticamera
— Hella, accompagnalo! — gridò Korov’ev.
Di nuovo quella donna rossa, nuda, in anticamera! Il barista scivolò fuori dalla porta, pigolò: «Arrivederci», e andò via come se fosse ubriaco. Dopo aver fatto una rampa di scala, si fermò, sedette su un gradino, trasse fuori il pacchetto, controllò: le banconote c’erano.
In quel momento uscí dall’appartamento che dava su quel pianerottolo una donna con una borsa verde. Vedendo un uomo seduto sul gradino, che fissava con espressione ottusa delle banconote da dieci rubli, la donna sorrise e disse pensierosa:
— Che casa, la nostra… Anche questo è ubriaco fin dal mattino… E sulla scala hanno rotto il vetro un’altra volta!
Fissando con maggiore attenzione il barista, soggiunse:
— Ehi, ma sei pieno di soldi! Perché non me ne dài un po’?
— Lasciami stare, per amor di Cristo! — si spaventò il barista, e nascose lesto il denaro.
La donna rise:
— Ma vai al diavolo, avaraccio! Scherzavo… — e scese.
Il barista si tirò su lentamente, alzò la mano per aggiustarsi il cappello, e costatò che non ce l’aveva. Non aveva nessuna voglia di tornare indietro, ma gli spiaceva per il cappello. Dopo una breve esitazione, risalí e suonò.
— Che cosa vuole ancora? — gli chiese la maledetta.
— Ho dimenticato il cappello… — sussurrò il barista puntando il dito sulla propria pelata. Hella si voltò. Il barista avrebbe voluto sputare e chiuse gli occhi. Quando li riaprí, Hella gli stava porgendo il cappello e una spada dall’elsa scura.
— Quella non è mia… — balbettò il barista respingendo la spada e mettendosi in fretta il cappello.
— Come, è venuto senza spada? — si stupí Hella.
Il barista borbottò qualcosa e scese in fretta. La sua testa non si sentiva a suo agio e sentiva troppo caldo in quel cappello. Lo tolse, e, con un salto di terrore, lanciò un grido: aveva in mano un berretto di velluto con una logora penna di gallo. Il barista si fece il segno della croce. Nello stesso istante il berretto miagolò, si trasformò in un gattino nero e, balzato di nuovo sulla testa di Andrej Fokič, gli affondò tutte le unghie nella pelata. Con un urlo atroce il barista si precipitò verso il basso, mentre il gattino gli cadde dalla testa e schizzò su per la scala.
Quando uscí all’aria aperta, trotterellò verso il portone lasciando per sempre la diabolica casa n. 302 bis.
Si sa benissimo quello che gli accadde in seguito. Dopo essere corso fuori dal portone, si guardò intorno con occhi dementi, come se cercasse qualcosa. Un attimo dopo era nella farmacia sull’opposto marciapiede. Non appena ebbe pronunciato le parole: