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— Quale sezione della polizia ha rilasciato questo documento? — chiese il gatto esaminando la pagina. Non ci fu risposta.

— La quattrocentododici, — si disse il gatto, seguendo con la zampa le righe del passaporto, che teneva a rovescio. — Ah sí, naturalmente! Conosco questa sezione, là rilasciano i documenti al primo che capita. Io, ad esempio, non avrei mai dato il passaporto a uno come lei! A nessun costo! L’avrei guardato in faccia una sola volta e subito glielo avrei rifiutato! — Il gatto si arrabbiò al punto da buttare il passaporto in terra. — La sua partecipazione al funerale è abrogata, — continuò il gatto con tono ufficiale. — Voglia tornare nel suo luogo di residenza — . E ringhiò verso la porta: — Azazello!

Al richiamo giunse di corsa in anticamera un piccoletto, zoppo, con una calzamaglia nera e un coltello infilato alla cintura di cuoio, rosso di capelli, con una zanna gialla, e l’occhio sinistro coperto da un leucoma.

Poplavskij si sentí soffocare, si alzò dalla sedia e indietreggiò tenendosi una mano sul cuore.

— Azazello, accompagnalo! — ordinò il gatto e uscí dall’anticamera.

— Poplavskij, — disse piano con voce nasale il nuovo venuto, — spero che abbia capito tutto?

Poplavskij annuí col capo.

— Tornatene subito a Kiev, — continuò Azazello. — Stattene li tranquillo come un agnellino e togliti dalla testa tutti gli appartamenti di Mosca. Chiaro?

Il piccoletto, che con la zanna, il coltello e l’occhio cieco, incuteva una paura mortale a Poplavskij, gli arrivava soltanto fino alle spalle, ma agiva in modo energico, sistematico ed efficiente.

Anzitutto raccattò il passaporto e lo porse a Maksimilian Andreevič, che prese il libretto con la mano inerte. Poi il denominato Azazello con una mano sollevò la valigia, con l’altra spalancò la porta e, prendendo sotto braccio lo zio di Berlioz, lo condusse sul pianerottolo. Poplavskij si appoggiò al muro. Senza alcuna chiave, Azazello aprí la valigia, ne tirò fuori un enorme pollo arrosto senza una coscia, avvolto in una bisunta carta da giornale, e lo depose sul pianerottolo. Poi tirò fuori due mute di biancheria, la cinghia per affilare il rasoio, un libro, un astuccio, e spinse tutto, tranne il pollo, giú per la tromba delle scale. Prese la stessa strada la valigia ormai vuota. La si sentí cadere di schianto in fondo e, a giudicare dal rumore, il coperchio doveva essere saltato via.

Poi il brigante dai capelli rossi afferrò il pollo per la coscia, e diede di piatto un colpo cosí forte e terribile sul collo di Poplavskij che il corpo del pollo si staccò, e la coscia rimase in mano ad Azazello. «Tutto si confuse in casa Oblonskij», come giustamente si espresse il celebre scrittore Lev Tolstoj. Avrebbe detto proprio cosí in questo caso. Sí! Tutto si confuse negli occhi di Poplavskij. Una lunga scintilla gli passò davanti agli occhi, fu poi sostituita da un luttuoso serpente che oscurò per un attimo la giornata di maggio, e Poplavskij volò giú dalla scala con il passaporto in mano.

Alla prima svolta, ruppe con un piede il vetro della finestra sul pianerottolo, e si sedette su un gradino. Gli saltellò accanto il pollo senza cosce e cadde nella tromba delle scale. Azazello, rimasto in alto, divorò la coscia in un baleno e ripose l’osso nel taschino laterale della calzamaglia, rientrò quindi nell’appartamento e chiuse la porta con fragore.

In quel momento si udirono dabbasso i passi cauti di qualcuno che saliva.

Fatto di corsa ancora un piano, Poplavskij sedette su una panchina di legno sul pianerottolo per riprendere fiato.

Un omettino anziano dal volto straordinariamente triste, con un antico vestito di tussor e un cappello di paglia duro col nastro verde, saliva le scale, e si fermò vicino a Poplavskij.

— Posso chiederle, signore, — chiese egli con mestizia, dov’è l’appartamento n. 50?

— Piú su, — rispose in modo brusco Poplavskij.

— La ringrazio sentitamente, signore, — disse l’ometto con altrettanta tristezza e riprese a salire. Poplavskij si alzò e scese di corsa.

Viene da chiedersi: Maksimilian Andreevič si affrettava forse a correre alla polizia per denunciare i briganti che lo avevano selvaggiamente aggredito in pieno giorno? No di certo, lo si può dire con sicurezza. Andare alla polizia e dire: ecco un gatto con gli occhiali mi ha controllato il passaporto, e un uomo con la calzamaglia e un coltello… — no, signori, Maksimilian Andreevič era per davvero un uomo intelligente.

Era ormai a pianterreno, e presso il portone vide un uscio che dava in uno sgabuzzino. Il vetro dell’uscio era rotto. Poplavskij nascose il passaporto in tasca e si guardò intorno, sperando di scorgere gli oggetti buttati giú. Ma non ce n’era traccia. Poplavskij fu sorpreso dallo scarso dispiacere che ne provò. Era preso da un altro pensiero interessante e seducente: verificare ancora una volta il maledetto appartamento per mezzo dell’ometto. Infatti, se egli aveva chiesto dove fosse, voleva dire che era la prima volta che ci andava. Quindi andava difilato nelle grinfie della banda che occupava l’appartamento n. 50. Qualcosa diceva a Poplavskij che l’omettino sarebbe uscito prestissimo da quell’appartamento. Maksimilian Andreevič, naturalmente, non aveva piú l’intenzione di recarsi ad alcun funerale di alcun nipote, e fino al prossimo treno per Kiev c’era tempo a sufficienza. L’economista si guardò in giro e si infilò nello sgabuzzino.

In quel momento si udí una porta sbattere in alto. «È entrato…», pensò Poplavskij, col cuore che gli mancava. Nello sgabuzzino faceva fresco, si sentiva odore di topi e di stivali. Poplavskij si sedette su un pezzo di legno, deciso ad aspettare. La posizione era comoda, dallo sgabuzzino si vedeva benissimo il portone dell’interno 6.

Dovette però attendere piú a lungo di quanto avesse previsto. Per tutto il tempo la scala rimase vuota. Si sentiva tutto, e, finalmente, al quinto piano una porta sbatté. Poplavskij impietrí. Sí, erano i suoi passetti. «Sta scendendo…» Si aprí una porta al quarto piano. I passetti si fermarono. Una voce femminile. La voce dell’omino triste, sí era la sua… Disse qualcosa come «lascia, per amore di Cristo…» L’orecchio di Poplavskij spuntava dal vetro rotto. Questo orecchio afferrò una risata femminile. Passi rapidi e allegri che scendevano. Poi balenò la schiena di una donna. Questa, con in mano una borsa di tela cerata verde, uscí in cortile. I passetti dell’uomo ricominciarono. «Strano! Risale nell’appartamento? Non sarà anche lui della stessa banda? Sí, risale. Ecco, di sopra hanno di nuovo aperto la porta. Be’, aspettiamo ancora…»

Questa volta non dovette aspettare a lungo. Rumore della porta. Passetti. I passetti cessarono. Un urlo terribile. Miagolio di un gatto. Passetti rapidi, fitti, giú, giú, giú!

Poplavskij aveva aspettato quanto bastava. Facendosi il segno della croce e borbottando qualcosa, l’uomo triste guizzò via senza cappello, con una faccia assolutamente folle, la calvizie graffiata e i pantaloni bagnatissimi. Cominciò a scuotere la maniglia del portone: per la paura non capiva se si aprisse verso l’interno o l’esterno; finalmente l’ebbe vinta e balzò fuori nel cortile al sole.

La verifica dell’appartamento era stata eseguita. Senza piú pensare né al defunto nipote né all’appartamento, preso da un brivido all’idea del pericolo in cui era incorso, Maksimilian Andreevič, sussurrando le parole «ho capito tutto, ho capito tutto!», corse fuori in cortile. Qualche minuto piú tardi, il filobus portava l’economista-pianificatore verso la stazione dei treni per Kiev.

In quanto all’omino, mentre l’economista se ne stava nello sgabuzzino, gli era successa una storia spiacevolissima. Era il preposto al buffet del Varietà e si chiamava Andrej Fokič Sokov. Mentre si svolgeva l’inchiesta al teatro Andrej Fokič stava alla larga, e fu notato soltanto che era diventato ancora piú mesto di quanto lo fosse di solito inoltre, aveva chiesto al fattorino Karpov il recapito dei mago straniero.

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