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Non lo rallegravano le piene primaverili del Dnepr quando, allagando le isole sulla riva bassa, l’acqua si fondeva con l’orizzonte. Non lo rallegrava il panorama di una bellezza sconvolgente che si apriva alla vista dal piedistallo della statua del principe Vladimir. Non lo allietavano le macchie di sole che giocavano in primavera sulle stradette ammattonate della Vladimirskaja gorka. Non voleva niente di tutto ciò, una cosa sola voleva: trasferirsi a Mosca.

Le inserzioni fatte sui giornali, dove proponeva il cambio di un appartamento sulla via Institutskaja con un altro, anche di superficie minore, a Mosca, non avevano dato alcun risultato. Non si trovava gente disposta, o se raramente se ne trovava, le loro proposte non erano oneste.

Il telegramma sconvolse Maksimilian Andreevič. Era un’occasione che sarebbe stato un peccato lasciarsi sfuggire. La gente pratica sa che possibilità del genere non si presentano due volte.

Insomma, malgrado tutte le difficoltà, doveva riuscire a ereditare l’appartamento del nipote sulla Sadovaja. Sí, era complicato, molto complicato, ma queste complicazioni andavano risolte ad ogni costo. L’esperto Maksimilian Andreevič sapeva che il primo passo in questo senso doveva assolutamente essere il seguente: prendere una residenza almeno temporanea, nelle tre stanze del defunto nipote.

Il venerdí, Maksimilian Andreevič entrò nella porta della stanza dove si trovava l’amministrazione della casa n. 302 bis sulla via Sadovaja a Mosca.

Nella stretta stanzuccia, sul muro della quale era appeso un vecchio manifesto che raffigurava, in alcune vignette, i modi di rianimare gli annegati nel fiume, a un tavolo di legno era seduto in completa solitudine un uomo di mezza età, con la barba lunga e gli occhi inquieti.

— Posso vedere il presidente dell’amministrazione? — chiese con cortesia l’economista-pianificatore, togliendosi il cappello e posando la valigia su una sedia libera.

Questa domanda apparentemente semplicissima turbò l’uomo seduto al punto da fargli cambiare faccia. Con gli occhi sfuggenti per l’inquietudine borbottò in modo confuso che il presidente non c’era.

— È a casa sua? — chiese Poplavskij. — Avrei una questione urgentissima da sottoporgli.

L’uomo seduto rispose di nuovo in modo sconnesso, ma si poteva indovinare che il presidente non era a casa sua.

— Quando ci sarà?

L’uomo non rispose a questa domanda, e con una certa qual angoscia guardò fuori della finestra.

«Aha!…», disse tra sé l’intelligente Poplavskij, e chiese del segretario.

Lo strano uomo divenne addirittura purpureo dalla tensione e disse di nuovo in modo confuso che non c’era neppure il segretario… non si sapeva quando sarebbe venuto e… che il segretario era ammalato…

«Aha!…», disse Poplavskij tra sé. — Ma deve pur esserci qualcuno in amministrazione?

— Io, — rispose l’uomo con voce fievole.

— Vede, — disse Poplavskij con aria imponente, — io sono l’unico erede del defunto Berlioz, mio nipote, perito, come lei sa, ai Patriaršie, e ho l’obbligo, conformemente alla legge, di accettare l’eredità che consiste nel nostro appartamento n. 50…

— Non sono al corrente, compagno… — lo interruppe mestamente l’uomo.

— Ma permetta, — disse Poplavskij con voce sonora, — lei è un membro dell’amministrazione, e ha l’obbligo di…

Interrompendolo, entrò nella stanzetta un signore. Alla sua vista, quello seduto al tavolo impallidí.

— Lei è Pjatnazko, membro dell’amministrazione? chiese il nuovo venuto.

— Sono io, — rispose l’altro con voce quasi impercettibile.

Il nuovo venuto gli sussurrò qualcosa all’orecchio e quello, del tutto sconvolto, si alzò dalla sedia. Pochi secondi dopo, Poplavskij era solo nella stanza vuota dell’amministrazione.

«Ahi, che complicazione! Possibile che tutti insieme dovevano…», pensava con dispetto Poplavskij, attraversando il cortile asfaltato e dirigendosi verso l’appartamento n. 50.

Non appena l’economista-pianificatore ebbe suonato, la porta fu aperta e Maksimilian Andreevič entrò nell’anticamera quasi buia. Fu alquanto sorpreso dal fatto che non si capiva chi gli avesse aperto: nell’anticamera non c’era nessuno all’infuori di un enorme gatto nero seduto su una sedia.

Maksimilian Andreevič tossicchiò, batté i piedi e allora si aprí la porta dello studio, e Korov’ev entrò nell’anticamera. Maksimilian Andreevič gli fece un inchino cortese ma dignitoso e disse:

— Mi chiamo Poplavskij. Sono lo zio…

Non fece in tempo a terminare la frase che Korov’ev tirò fuori dalla tasca un fazzoletto sporco, vi nascose il viso e cominciò a piangere.

— …del defunto Berlioz…

— Sí, sí, naturalmente! — lo interruppe Korov’ev, togliendosi il fazzoletto dal volto. — Non appena l’ho vista, ho indovinato che era lei! — Qui fu scosso dalle lacrime e continuò: — Che disgrazia, eh? Ne capitano, eh?

— È stato schiacciato da un tram? — chiese Poplavskij in un sussurro.

— In pieno! — gridò Korov’ev, e le lacrime gli colarono a torrenti da sotto gli occhiali a molla. — In pieno! Ero lí! Mi creda, zac, e via la testa! La gamba destra, crac, spaccata in due! La gamba sinistra, crac, spaccata in due! Ecco i bei risultati dei tram! — e non avendo evidentemente la forza di contenersi, Korov’ev si appoggiò col naso al muro vicino allo specchio, sussultando dai singhiozzi.

Lo zio di Berlioz fu sinceramente sorpreso dal comportamento dello sconosciuto. «Ecco, e poi dicono che non c’è piú al mondo gente di cuore!», pensò, sentendo che anche i suoi occhi cominciavano a pizzicare. Ma nello stesso tempo una nuvoletta sgradevole gettò un’ombra sul suo animo, e come un serpentello balenò il dubbio che quell’uomo di cuore avesse magari già preso la residenza nell’appartamento del defunto, poiché nella vita capitano anche cose del genere.

— Scusi, ma lei era un amico del mio povero Miša? chiese, asciugandosi con la manica l’occhio sinistro asciutto, e studiando con quello destro Korov’ev sconvolto dalla tristezza. Ma quello singhiozzava a tal punto che non si poteva capire nulla, fuorché le parole «crac», e «spaccata in due». Dopo aver singhiozzato a profusione, Korov’ev si scollò infine dal muro e disse:

— No, non ne posso piú! Vado a prendere trecento gocce di valeriana… — e voltando verso Poplavskij il viso coperto di lacrime, soggiunse: — E poi dicono dei tram!

— Mi scusi, è stato lei a telegrafarmi? — chiese Maksimilian Andreevič, cercando tormentosamente di capire chi potesse essere quello straordinario frignone.

— Lui, — rispose Korov’ev indicando il gatto col dito. Poplavskij sbarrò gli occhi, pensando di aver sentito male.

— No, non ce la faccio piú, — continuava Korov’ev tirando su col naso, — quando mi ricordo: la ruota sulla gamba… una ruota che peserà da sola un quintale e mezzo… crac!… Vado a letto, un po’ di sonno mi aiuterà — . E scomparve dall’anticamera.

Il gatto si mosse, saltò giú dalla sedia, si rizzò sulle zampe posteriori, si mise quelle anteriori sui fianchi, spalancò le fauci e disse:

— Be’, ho telegrafato io. E allora?

A Maksimilian Andreevič venne di colpo il capogiro non si sentí piú le braccia e le gambe, lasciò cadere la valigia e sedette su una sedia di fronte al gatto.

— Mi pare di parlare russo, — disse severo il gatto, — e allora?

Ma Poplavskij non rispose.

— Documenti! — ringhiò il gatto e tese una zampa grassoccia.

Senza capire niente e senza vedere niente all’infuori di due scintille che ardevano negli occhi del gatto, Poplavskij trasse dalla tasca il passaporto come un pugnale. Dal tavolo sotto lo specchio, il gatto afferrò un paio di occhiali dalla spessa montatura nera e se li inforcò sul muso, il che lo rese ancora piú imponente; poi prese il passaporto dalle mani tremanti di Poplavskij.

«Interessante: perderò i sensi oppure no?…», pensò Poplavskij. Da lontano giungevano i singhiozzi di Korov’ev, tutta l’anticamera si era riempita dell’odore di etere, di valeriana e di un’altra schifezza nauseabonda.

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