— No.
Mi guardò sorpresa, e, di colpo, in modo del tutto inatteso, sentii che per tutta la vita avevo amato proprio quella donna! Che storia, eh? Lei dirà, naturalmente, che sono pazzo.
— Non dico niente, — esclamò Ivan, e soggiunse: — La supplico, continui!
L’ospite continuò.
— Sí, mi fissò sorpresa, e poi, dopo avermi fissato, chiese:
— Non le piacciono i fiori?
Nella sua voce mi parve sentire dell’ostilità. Le camminavo accanto, cercando di tenere il passo, e, con mio grande stupore, non mi sentivo affatto imbarazzato.
— No, mi piacciono i fiori, ma non questi, — dissi.
— Quali le piacciono?
— Le rose.
Rimpiansi le mie parole, perché lei ebbe un sorriso contrito e gettò i suoi fiori nel rigagnolo. Li raccattai, un po’ confuso, e glieli porsi, ma lei, sorridendo, li respinse ed essi mi rimasero in mano.
Camminammo cosí, silenziosi, per un po’, finché lei non mi tolse i fiori di mano e li gettò sul selciato, poi infilò sotto il mio braccio la mano col guanto nero svasato, e proseguimmo vicini.
— E poi? — disse Ivan. — Per favore, non salti niente!
— E poi? — l’ospite ripeté la domanda. — Quello che successe poi, lo può indovinare lei stesso — . Inaspettatamente si asciugò una lacrima con la manica destra, e proseguí: — L’amore ci si parò dinanzi come un assassino sbuca fuori in un vicolo, quasi uscisse dalla terra, e ci colpí subito entrambi. Cosí colpisce il fulmine, cosí colpisce un coltello a serramanico! Del resto, lei affermava in seguito che non era cosí, che ci amavamo da molto tempo pur senza esserci mai visti, e pur vivendo lei con un altro… e io, allora… con quella, come si chiama.
— Con chi? — chiese Bezdomnyj.
— Con quella, ma sí… quella… mm… — rispose l’ospite schioccando le dita.
— Lei era sposato?
— Ma sí, perché crede che schiocchi le dita?… Con quella… Varen’ka… Manecka… no, Varen’ka… il vestito a strisce, il Museo… Ma non ricordo.
Ebbene, lei diceva che con quei fiori gialli in mano era uscita, quel giorno, perché io la potessi finalmente incontrare, e che se questo non fosse avvenuto, si sarebbe avvelenata, poiché la sua vita era vuota.
Sí, l’amore ci colpí in un baleno. Lo sapevo già, quel giorno, dopo un’ora, mentre eravamo, senza accorgerci dell’esistenza della città, sul lungofiume sotto le mura del Cremlino.
Parlavamo come se ci fossimo lasciati il giorno prima, come se ci conoscessimo da molti anni. Ci accordammo per trovarci l’indomani nello stesso posto, sulla Moscova, e ci incontrammo. Il sole di maggio splendeva per noi. Ben presto, quella donna divenne la mia moglie segreta.
Veniva da me quotidianamente, di giorno, e ad aspettarla io cominciavo sin dal mattino. Questa attesa si manifestava col fatto che spostavo gli oggetti sul tavolo. Dieci minuti prima mi sedevo vicino alla finestra e mi mettevo in ascolto, aspettando che il vecchio cancello sbattesse. È strano: prima che la incontrassi, poca gente veniva nel nostro cortiletto, anzi, non veniva mai nessuno, mentre adesso mi sembrava che tutta la città vi si precipitasse. Sbatteva il cancello, batteva il mio cuore, e, si figuri, dietro il finestrino al livello del mio viso, appariva immancabilmente un paio di stivali sporchi. L’arrotino. Ma chi aveva bisogno di un arrotino nella nostra casa? Arrotare che cosa? Quali coltelli?
Lei entrava una sola volta dal cancello, ma io avevo provato il batticuore almeno dieci volte, non dico una bugia. Poi, quando giungeva la sua ora e le lancette indicavano mezzogiorno il batticuore continuava finché senza tacchettio quasi silenziose, davanti alla finestra non mi passavano le scarpe con un nodo di camoscio nero, stretto da una fibbia d’acciaio.
A volte scherzava, e fermandosi davanti alla seconda finestra, bussava al vetro con la punta della scarpa. Nello stesso istante io mi ritrovavo davanti a quella finestra, ma la scarpa scompariva, scompariva la seta nera che velava la luce, e io correvo ad aprirle.
Nessuno sapeva del nostro legame, glielo garantisco, anche se questo non succede mai. Non lo sapeva suo marito, non lo sapevano i conoscenti. Nella vecchia casetta dove possedevo quello scantinato, naturalmente, sapevano, vedevano che mi veniva a trovare una donna, ma non ne conoscevano il nome.
— E chi è? — chiese Ivan, interessato in sommo grado a quella storia d’amore.
L’ospite fece un gesto a significare che non l’avrebbe mai detto a nessuno, e continuò il suo racconto.
Ivan seppe che il Maestro e la sconosciuta si amavano talmente che divennero assolutamente inseparabili. Ivan ora si immaginava con chiarezza le due camere dello scantinato della casetta, dove regnava sempre il crepuscolo a causa del lillà e della palizzata. I logori mobili di mogano, lo scrittoio con l’orologio che suonava ogni mezz’ora, e libri, libri, che andavano dal pavimento di legno lucido fino al soffitto annerito dal fumo, e la stufa.
Ivan apprese che, sin dai primi giorni della loro relazione, il suo ospite e la moglie segreta erano venuti alla conclusione che a farli incontrare all’angolo della Tverskaja con il vicolo era stato il destino, e che erano stati creati eternamente l’uno per l’altra.
Dal racconto dell’ospite, Ivan apprese anche come gli innamorati trascorressero le loro giornate. Appena arrivava, lei s’infilava un grembiule, e nello stretto ingresso, dove si trovava il lavandino di cui il povero malato era tanto fiero, accendeva sul tavolo di legno il fornellino a petrolio, preparava la colazione e la serviva nella prima stanza sul tavolo ovale. Quando scoppiavano i temporali di maggio e davanti alle finestre poco luminose l’acqua scorreva rumorosa nel portone minacciando di inondare l’ultimo rifugio, gli innamorati accendevano la stufa e vi facevano cuocere le patate nella cenere. Dalle patate si alzavano nubi di vapore, la buccia nera sporcava loro le dita. Nello scantinato si udivano risate e nel giardino gli alberi, dopo la pioggia, si scrollavano di dosso i ramoscelli spezzati e grappoli di fiori bianchi.
Quando finirono i temporali e giunse l’afosa estate, nel vaso apparvero le rose, tanto attese e amate da entrambi. Colui che si chiamava Maestro lavorava febbrilmente al suo romanzo, e questo romanzo assorbí anche la sconosciuta.
— Davvero, a volte ne ero geloso, — sussurrava l’ospite notturno arrivato dal balcone illuminato dalla luna.
Con le dita sottili dalle unghie appuntite affondate nei capelli, essa rileggeva senza fine la parte già scritta, e dopo averla letta, cuciva quel berretto. A volte si accoccolava accanto agli scaffali inferiori, oppure stava ritta presso quelli superiori, e con uno straccio spolverava centinaia di libri. Gli annunciava la gloria, lo spronava, e fu allora che cominciò a chiamarlo Maestro. Aspettava con impazienza le ultime parole già promesse sul quinto procuratore della Giudea, ripeteva a voce alta, cantilenando, singole frasi che le piacevano, e diceva che in quel romanzo c’era la sua vita.
Fu terminato in agosto e consegnato a una dattilografa sconosciuta che lo batté in cinque copie. Infine giunse l’ora di abbandonare il rifugio segreto e di entrare nella vita.
— Entrai nella vita, col romanzo in mano, e fu allora che la mia vita finí, — sussurrò il Maestro chinando il capo, e a lungo ondeggiò quel mesto berretto nero con la lettera gialla «M». Riprese il suo racconto, ma questo divenne cosí sconclusionato che Ivan poté capire solo che all’ospite era successa una catastrofe.
— Capitavo per la prima volta nel mondo della letteratura, ma ora che tutto è finito e che la mia rovina è un fatto compiuto, lo ricordo con orrore! — sussurrò solennemente il Maestro e alzò la mano. — Sí, mi colpí profondamente, oh, come mi colpí!
— Chi? — sussurrò Ivan con una voce appena percettibile, temendo di interrompere l’eccitato narratore.
— Il direttore della rivista, le sto dicendo, il direttore! Sí, lo. lesse. Mi guardava come se avessi una guancia gonfia per un ascesso, sbirciava un angolo e ridacchiava persino con imbarazzo. Spiegazzava senza una ragione il manoscritto e tossicchiava. Le domande che mi faceva mi sembrarono pazzesche. Senza dir niente, in sostanza, sul romanzo, mi chiese chi fossi e da dove venissi, se scrivessi da molto tempo e perché non avessero mai parlato di me prima; mi fece perfino una domanda, secondo me, assolutamente idiota; chi mi aveva suggerito di scrivere un romanzo su un soggetto cosí strano? Alla fine mi stufò, e gli chiesi a bruciapelo se intendeva o no pubblicare il libro. Cominciò allora a dimenarsi, a balbettare qualcosa e dichiarò che non poteva prendersi la responsabilità di una decisione e che altri membri della redazione avrebbero dovuto leggere il mio lavoro, e precisamente i critici Latunskíj e Ariman, e il letterato Mstislav Lavrovič, Mi pregò di tornare dopo due settimane. Lo feci, e fui accolto da una ragazza che aveva gli occhi strabici a furia di mentire.