— Senza dubbio, — ammise l’irriconoscibile Ivan.
— Vede… Ma perfino la faccia che mi ha descritta, gli occhi disuguali, le sopracciglia!… Mi perdoni, ma lei magari non ha neppure visto l’opera Il Faust?
Ivan si vergognò terribilmente e, con il volto in fiamme, borbottò qualcosa circa un viaggio in una casa di riposo…a Jalta…
— Ecco, lo dicevo… non c’è di che stupirsi! Ma Berlioz, ripeto, mi sorprende… Non solo aveva letto molto, ma era anche molto furbo. Anche se, a sua difesa, devo dire che Woland è in grado di buttare polvere negli occhi a gente ancora piú furba.
— Come?! — gridò a sua volta Ivan.
— Piano!
Di slancio Ivan si diede una manata sulla fronte e sibilò: — Capisco, capisco. Aveva una «W» sul biglietto da visita. Ahi-ahi-ahi, che roba! — Tacque per qualche istante sconvolto, fissando la luna che galleggiava oltre l’inferriata, e riprese: — Allora poteva essere stato per davvero da Ponzio Pilato? Era già nato allora? E mi danno del pazzo! — soggiunse Ivan, indicando sdegnato la porta.
Una piega amara si formò agli angoli della bocca dell’ospite.
— Guardiamo la verità in faccia — . Voltò il viso verso l’astro notturno che correva attraverso una nuvola. — Sia lei che io siamo pazzi, inutile negarlo. Vede, lui l’ha sconvolto, e le ha dato di volta il cervello, perché lei, evidentemente, aveva una predisposizione. Tuttavia ciò che lei racconta è accaduto davvero, non c’è alcun dubbio. Ma è talmente fuori dal comune che perfino Stravinskij, psichiatra geniale, naturalmente non le ha prestato fede. L’ha esaminato? — (Ivan annuí). — Il suo interlocutore è stato da Pilato, ha fatto colazione con Kant, e adesso visita Mosca.
— Ma chi sa che diavolerie combinerà! Bisogna pur acchiapparlo in qualche modo — . L’Ivan vecchio, non ancora del tutto vinto, sollevò la testa nell’Ivan nuovo, anche se con qualche incertezza.
— Lei ha già provato, e le basta, — replicò ironico l’ospite. — Neanche agli altri consiglierei di tentare. Ma che ne combinerà delle belle, può star sicuro! Eh, eh! Come mi dispiace che si sia incontrato con lei e non con me! Anche se nel mio animo tutto è bruciato e incenerito, giuro che in cambio di quell’incontro avrei dato il mazzo di chiavi di Praskov’ja Fëdorovna, poiché non possiedo null’altro. Non ho niente.
— Che bisogno ne ha?
Per un po’ l’ospite, scosso da un tremito, si chiuse nella sua tristezza, ma infine disse:
— Vede che caso strano: sono qui per lo stesso suo motivo, cioè per colpa di Ponzio Pilato — . Si voltò impaurito e riprese: — Il fatto è che un anno fa ho scritto un romanzo su Pilato.
— Lei è scrittore? — chiese con interesse il poeta.
L’ospite incupí e minacciò Ivan col pugno, poi disse:
— Io sono un Maestro[12] -. Si fece severo e trasse dalla tasca un berretto nero, lucido dall’uso, con una «M» ricamata in seta gialla. Si mise il berretto in testa e si mostrò a Ivan di fronte e di profilo per comprovare di essere un maestro. — Me l’ha cucito con le sue stesse mani, — aggiunse con fare misterioso.
— Qual è il suo nome?
— Non ho piú nome, — rispose lo strano ospite con un cupo disprezzo. — L’ho rifiutato, come del resto ho rifiutato tutto nella vita. Scordiamocene.
— Mi dica almeno del romanzo, — pregò Ivan con delicatezza.
— Volentieri. La mia vita, bisogna dire, — cominciò l’ospite, — non si è svolta in modo del tutto comune.
… Laureatosi in storia, ancora due anni prima lavorava in un museo di Mosca, facendo anche delle traduzioni.
— Da che lingua? — lo interruppe Ivan interessato.
— Conosco cinque lingue oltre alla russa, — rispose l’ospite, — inglese, francese, tedesco, latino e greco. E leggo un po’ l’italiano.
— Accidenti! — sussurrò invidioso Ivan.
… Lo storico viveva solo, non aveva parenti e quasi nessun conoscente a Mosca. E un giorno, figuratevi, vinse centomila rubli.
— S’immagini il mio stupore, — sussurrava l’ospite dal berretto nero, — quando infilai la mano nel cesto della biancheria sporca e vidi lo stesso numero pubblicato sul giornale! Le obbligazioni me le avevano date al Museo.
… Dopo che ebbe vinto centomila rubli, l’enigmatico ospite di Ivan si comportò in questo modo: comperò dei libri, lasciò la sua camera sulla Mjasnickaja…
— Uh, maledetto buco! — ruggí.
… E affittò da un capomastro, in un vicolo presso l’Arbat, due camere nello scantinato di una casetta col giardino. Lasciò il lavoro del Museo, e cominciò a scrivere un romanzo su Ponzio Pilato.
— Oh, era l’età dell’oro! — sussurrava il narratore con gli occhi scintillanti. — Un appartamentino indipendente, col suo ingresso, e nell’ingresso un lavandino, — sottolineò con particolare orgoglio, chi sa poi perché, — le piccole finestrelle sopra il marciapiede che portava al cancello. Di fronte, a due passi, lungo la palizzata, lillà, tigli e un acero. Oh, oh, oh! D’inverno, molto raramente vedevo dalla finestra dei piedi neri e udivo il loro scricchiolio sulla neve. Nella stufa il fuoco era sempre acceso! Ma all’improvviso giunse la primavera, e attraverso i vetri torbidi vidi i cespugli del lillà dapprima nudi, poi rivestiti di verde. In quel periodo, la primavera scorsa, successe qualcosa di molto piú meraviglioso che la vincita di centomila rubli. Eppure, ne convenga, si tratta di una somma enorme!
— Senz’altro, — riconobbe Ivan, che ascoltava con attenzione.
— Avevo aperto la finestrella e me ne stavo nella seconda stanza, che era piccola piccola — . L’ospite si mise a indicarne la pianta con le mani: — Qui c’era un divano, di fronte un altro divano, in mezzo un tavolino, e sopra una bellissima lampada; piú vicino alla finestra, dei libri, qui una piccola scrivania; invece nella prima stanza — una stanza enorme: quattordici metri! — libri, ancora libri, e la stufa. Oh, com’ero sistemato bene! Il lillà ha un profumo straordinario! La mia testa diventava leggera dalla stanchezza, e Pilato volava verso la fine…
— Il mantello bianco, la fodera rossa, capisco! — esclamò Ivan.
— Proprio cosí! Pilato volava verso la fine, verso la fine, e sapevo già che le ultime parole del romanzo sarebbero state «… il quinto procuratore della Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato». Be’, naturalmente, facevo delle passeggiate. Centomila rubli sono una somma enorme, e avevo un vestito magnifico. Oppure andavo a mangiare in un ristorante a prezzo economico. Sull’Arbat c’era un ottimo ristorante, non so se esista ancora — . Gli occhi dell’ospite si spalancarono, ed egli continuò a sussurrare, guardando la luna: — Essa aveva in mano orribili fiori gialli inquieti. Non so come si chiamino, ma sono sempre i primi ad apparire a Mosca. Questi fiori si stagliavano nettamente sul suo soprabito nero primaverile. Aveva fiori gialli! Un brutto colore. Dalla Tverskaja svoltò in un vicolo e si voltò. Conosce la Tverskaja, no? Lungo la Tverskaja camminavano migliaia di persone, ma le garantisco che essa vide me solo e mi guardò, non dico preoccupata, ma addirittura in un certo qual modo morboso. Fui colpito non tanto dalla sua bellezza, quanto dalla straordinaria, mai vista solitudine nei suoi occhi! Ubbidendo a quel richiamo giallo, anch’io svoltai nel vicolo e la seguii. Camminavamo in silenzio lungo il vicolo triste e storto, io da un lato, lei dall’altro. E si figuri che non c’era anima viva. Mi tormentavo perché mi sembrava che fosse necessario parlarle, e temevo che non sarei riuscito a pronunciare neppure una parola, e lei se ne sarebbe andata, e non l’avrei mai piú rivista. E s’immagini, a un tratto fu lei a parlare:
— Le piacciono i miei fiori?
Mi ricordo chiaramente il suono della sua voce, alquanto bassa, ma con brusche variazioni di tono, e — è sciocco, lo so — parve che un’eco risuonasse nel vicolo e si ripercuotesse nel muro giallo e sporco. Passai in fretta sull’altro marciapiede e, avvicinandomi a lei, risposi: