— Questo non è lecito, — borbottava.
— Non voglio sentire scuse!… — sussurrò al suo orecchio Korov’ev. — Da noi non è lecito, ma dagli stranieri è lecito. Lei lo offende, Nikanor Ivanovič, e questo non sta bene. Lei si è dato da fare…
— È punito dalla legge, — sussurrò pianissimo il presidente e si guardò intorno.
— E dove sono i testimoni? — sussurrò nell’altro orecchio Korov’ev. — Le chiedo: dove sono? Ma si figuri!…
Qui, come ebbe ad affermare in seguito il presidente avvenne un miracolo: il pacchetto s’infilò da solo nella sua cartella. Poi il presidente si ritrovò sulla scala, infiacchito e addirittura esausto. Un turbine di pensieri gli si agitava nella testa dove vorticavano la villa di Nizza, il gatto ammaestrato, il pensiero che effettivamente non vi erano stati testimoni, e che Pelageja Antonovna si sarebbe rallegrata per i biglietti di favore. Erano pensieri sconnessi, ma in complesso gradevoli. Eppure, nel piú profondo dell’animo, una spina punzecchiava il presidente. Era la spina dell’inquietudine. Inoltre, mentre era sulla scala, il presidente come da un colpo, fu colto da un pensiero: «Come ha fatto l’interprete ad entrare nello studio, dal momento che la porta era sigillata?!» E come mai lui, Nikanor Ivanovič non glielo aveva chiesto? Per qualche minuto, il presidente fissò i gradini come un asino, poi decise di infischiarsene e di non tormentarsi piú con pensieri complicati…
Non appena il presidente ebbe lasciato l’appartamento dalla camera da letto giunse una voce bassa:
— A me questo Nikanor Ivanovič non è piaciuto. È uno scroccone e un imbroglione. Non si può fare in modo che non venga piú qui?
— Messere, basta che lei ordini… — replicò Korov’ev, con una voce non piú tremolante ma limpida e sonora.
E subito il maledetto interprete fu in anticamera, fece un numero e disse nel ricevitore con voce piagnucolosa:
— Pronto! Considero mio dovere comunicare che il presidente della nostra cooperativa inquilini della casa n. 302 bis sulla Sadovaja, Nikanor Ivanovič Bosoj, traffica valuta estera. In questo momento, nel suo appartamento n. 35 nel condotto di aerazione del gabinetto, si trovano, avvolti in carta da giornale, quattrocento dollari. Parla l’inquilino della stessa casa, dell’appartamento n. 11, Timofej Kvascov. Ma vi supplico di mantenere segreto il mio nome. Temo la vendetta del suddetto presidente.
E riattaccò il ricevitore, quel mascalzone!
Che avvenisse poi nell’appartamento n. 50 non si sa, ma si sa quello che avvenne da Nikanor Ivanovič. Chiusosi nel gabinetto, trasse dalla cartella il pacchetto che l’interprete lo aveva costretto a prendere, e constatò che conteneva quattrocento rubli. Nikanor Ivanovič avvolse il pacchetto in un pezzo di giornale e lo cacciò nel condotto di aerazione.
Cinque minuti dopo, il presidente era a tavola nella sua piccola sala da pranzo. Sua moglie portò dalla cucina un’aringa accuratamente tagliata e ben cosparsa di cipolla verde. Nikanor Ivanovič si versò un bicchierino di vodka, lo tracannò, ne versò un altro, lo tracannò, infilzò con la forchetta tre pezzetti d’aringa… e in quel momento suonarono. Pelageja Antonovna mise in tavola una pentola fumante, una sola occhiata alla quale bastava a far capire che, in mezzo alla minestra bollente, si trovava il piú saporito cibo del mondo: un osso col midollo.
Con l’acquolina in bocca, Nikanor Ivanovič ringhiò come un cane:
— Vadano all’inferno! Non mi lasciano neanche mangiare!… Non far entrare nessuno, non ci sono, sono via… Per l’appartamento, digli che la smettano di agitarsi, tra una settimana ci sarà la riunione.
La moglie corse in anticamera, mentre Nikanor Ivanovič pescava col mestolo, da quell’ignivomo lago lui, l’osso appunto, incrinato longitudinalmente. In quel momento nella sala da pranzo entrarono due persone, accompagnate da Pelageja Antonovna, pallidissima. Vedendoli, si sbiancò anche Nikanor Ivanovič e si alzò.
— Dov’è il cesso? — chiese preoccupato il primo, che indossava un camiciotto bianco alla russa.
Qualcosa batté sul tavolo (Nikanor Ivanovič aveva lasciato cadere il mestolo sulla tela cerata).
— Qui, qui, — rispose in fretta Pelageja Antonovna.
I nuovi venuti si diressero subito in corridoio.
— Che succede? — chiese piano Nikanor Ivanovič, seguendo i due. — Nel nostro appartamento non c’è niente di proibito… Ma lei ha dei documenti… mi scusi…
Il primo, camminando, mostrò i documenti a Nikanor Ivanovič, mentre il secondo era già in piedi su uno sgabello nel gabinetto, con il braccio infilato nel condotto di aerazione. A Nikanor Ivanovič si annebbiò la vista. Tolsero il giornale, ma il pacchetto, invece dei rubli, risultò contenere denaro sconosciuto, fra il verde e l’azzurro, con l’immagine di un vecchio. Del resto, Nikanor Ivanovič vedeva tutto molto confusamente, davanti agli occhi gli ballavano delle macchie.
— Dollari nel condotto di aerazione, — disse pensieroso il primo, e chiese con dolcezza e urbanità a Nikanor Ivanovič: — È suo, questo pacchetto?
— No! — rispose Nikanor Ivanovič con voce terribile. Lo hanno messo lí i miei nemici!
— Capita, — acconsentí il primo, e aggiunse con la stessa dolcezza: — Be’, bisogna consegnare gli altri.
— Non ne ho! Giuro davanti a Dio che non ne ho mai avuti! — gridò disperato il presidente.
Si gettò verso il comò aprí con fracasso un cassetto, e ne estrasse la cartella, gridando frasi sconnesse:
— Ecco il contratto… quel verme di interprete mi ha rifilato… Korov’ev… con gli occhiali a molla…
Aprí la cartella, vi guardò dentro, vi infilò la mano, illividí e lasciò cadere la cartella nella minestra. Non c’era niente: né la lettera di Stepa, né il contratto, né il passaporto dello straniero, né il denaro, né il biglietto di favore. Insomma niente, tranne il metro pieghevole.
— Compagni! — urlò frenetico il presidente. — Pigliateli! In questa casa c’è lo spirito maligno!
Qui non si sa che cosa saltasse in testa a Pelageja Antonovna fatto sta che, alzando le braccia al cielo, esclamò:
— Confessa, Ivanyc! Ti ridurranno la pena!
Con gli occhi iniettati di sangue, Nikanor Ivanovič alzò i pugni sulla testa della moglie, rantolando:
— Oh, cretina maledetta!
Poi le forze gli mancarono, e si sedette, avendo evidentemente deciso di rassegnarsi all’inevitabile.
In quel frattempo, Timofej Kondrat’evič Kvascov, sul pianerottolo, appoggiava ora l’occhio ora l’orecchio al buco della serratura della porta del presidente, struggendosi di curiosità.
Cinque minuti dopo, gli inquilini della casa che si trovavano in cortile, videro il presidente dirigersi difilato verso il portone, accompagnato da due persone. Dicevano che Nikanor Ivanovič aveva cambiato faccia, che barcollava come un ubriaco, e che borbottava qualcosa.
Un’ora dopo, nell’appartamento n. 11, nel momento in cui Timofej Kondrat’evič raccontava agli altri, andando in sollucchero, come avessero messo in gattabuia il presidente, entrò uno sconosciuto il quale chiamò in anticamera Timofej con un movimento del dito, gli disse qualcosa e scomparve con lui.