Questa disquisizione non soddisfece minimamente il presidente dell’amministrazione della casa. Essendo già per natura una persona sospettosa, concluse che quel tipo che gli sermoneggiava davanti, non solo non era un funzionario, ma magari era anche un perdigiorno.
— Ma insomma, lei chi sarebbe? Come si chiama? chiedeva il presidente con modi sempre piú severi, cominciando perfino ad avanzare verso lo sconosciuto.
— Il mio cognome, — replicò quello, per nulla turbato da quella severità, — è, be’, diciamo, Korov’ev. Vuol prendere qualcosa, Nikanor Ivanovič? Senza complimenti, sa?
— Le chiedo scusa, — disse Nikanor Ivanovič, ormai sdegnato, — che c’entra «prendere qualcosa»? — (Si deve riconoscere, benché sia spiacevole, che Nikanor Ivanovič era per natura alquanto villano). — Non è permesso stare nei locali del defunto! Che fa lei qui?
— Ma si accomodi, Nikanor Ivanovič, — urlava quello senza il minimo imbarazzo, offrendogli, strisciante, una poltrona. Completamente infuriato, Nikanor Ivanovič la rifiutò, e gridò:
— Ma lei chi è?
— Io, col suo permesso, sono l’interprete addetto a uno straniero residente in questo appartamento, — si presentò colui che aveva detto di chiamarsi Korov’ev, e sbatté i tacchi delle scarpe rossicce non pulite.
Nikanor Ivanovič spalancò la bocca. La presenza, in quell’appartamento, di uno straniero, per di piú provvisto di un interprete, era per lui una totale sorpresa. Volle spiegazioni.
L’interprete gliele diede di buon grado. L’artista straniero signor Woland era stato gentilmente invitato dal direttore del Varietà Stepan Bogdanovič Lichodeev a trascorrere il periodo della sua tournée, una settimana circa, nel proprio appartamento, del che aveva già scritto ieri a Nikanor Ivanovič, pregandolo di registrare temporaneamente lo straniero, mentre lo stesso Lichodeev avrebbe fatto un viaggetto a Jalta.
— Non mi ha scritto niente, — disse il presidente meravigliato.
— Guardi bene nella sua cartella, Nikanor Ivanovič, propose Korov’ev soavemente.
Stringendosi nelle spalle, Nikanor Ivanovič aprí la cartella e vi scoprí la lettera di Lichodeev.
— Come ho fatto a dimenticarmene? — borbottò, fissando la busta aperta con espressione ottusa.
— Eh, sono cose che capitano, Nikanor Ivanovič! — cicalò Korov’ev. — Distrazione, distrazione, esaurimento e pressione troppo alta, caro il mio Nikanor Ivanovič! Anch’io sono terribilmente distratto! Un giorno o l’altro, davanti a un bicchierino, le racconterò qualche fatterello della mia vita: lei creperà dal ridere!
— Quand’è che Lichodeev va a Jalta?!
— Ma è già andato, è già andato! — gridò l’interprete. Eh, sta già viaggiando! Chi diavolo sa dove si trova a quest’ora! — e l’interprete agitò le braccia come le pale di un mulino a vento.
Nikanor Ivanovič dichiarò che doveva vedere personalmente lo straniero, ma l’interprete rifiutò: assolutamente impossibile. Era occupato. Stava addestrando il gatto.
— Il gatto, se vuole, glielo posso far vedere, — propose Korov’ev.
Nikanor Ivanovič, a sua volta, rifiutò, e l’interprete fece subito al presidente una proposta inattesa, ma assai interessante: considerando che il signor Woland rifiutava nel modo piú assoluto di vivere in albergo, e d’altro canto era abituato a disporre di molto spazio, non poteva la cooperativa affittargli per una settimana — durata della tournée di Woland a Mosca — l’intero appartamento, cioè anche i locali del defunto?
— A lui, al defunto, non importa niente, — sussurrava con voce rauca Korov’ev. — Ne convenga, Nikanor Ivanovič, quest’appartamento a che gli serve adesso?
Nikanor Ivanovič replicò con una certa perplessità che gli stranieri dovrebbero risiedere al Métropole, non in appartamenti privati…
— Ma se le sto dicendo che è capriccioso come il diavolo sa chi! — sussurrò Korov’ev. — Non vuole! Non gli piacciono gli alberghi! Mi stanno qui, i turisti stranieri, — si lagnò confidenzialmente Korov’ev, battendo il dito sul collo magro. — Mi creda, mi hanno scocciato! Arriva uno e fa lo spione come l’ultimo dei figli di un cane, o rompe l’anima coi suoi capricci: una cosa non gli va, un’altra neppure!… E per la sua cooperativa, Nikanor Ivanovič, è tanto di guadagnato. Lui non bada a spese, — Korov’ev si voltò poi bisbigliò all’orecchio del presidente: — È un milionario!
La proposta dell’interprete aveva un chiaro senso pratico, ed era assai seria, ma qualcosa di straordinariamente poco serio c’era sia nella maniera di parlare dell’interprete, sia nel suo abbigliamento, sia in quegli abominevoli occhiali a molla che non valevano un soldo. Di conseguenza, qualcosa di poco chiaro gravava sul cuore del presidente eppure decise di accogliere la proposta. Il fatto è che la cooperativa, ohimè, soffriva di un forte deficit. In autunno sarebbe stato necessario comprare la nafta per il riscaldamento, ma con quali quattrini non si sapeva. Adesso, coi soldi del turista straniero, si sarebbe forse potuto cavare d’impaccio. Ma Nikanor Ivanovič, persona pratica e prudente, dichiarò che in primo luogo doveva avere l’autorizzazione dell’Ufficio turisti stranieri.
— Capisco! — esclamò Korov’ev. — Come no! Senz’altro! Eccole il telefono, Nikanor Ivanovič, si faccia subito dare l’autorizzazione! E per i soldi, non faccia complimenti, aggiunse in un sussurro, trascinando in anticamera il presidente, verso il telefono. — A chi chiederne se non a lui! Se vedesse che villa possiede a Nizza! L’estate prossima, quando andrà all’estero, vada appositamente a guardarsela, vedrà che roba!
La questione con l’Ufficio turisti stranieri fu risolta per telefono con una celerità straordinaria, che sbalordí il presidente. Apprese che erano già informati dell’intenzione del signor Woland di abitare nell’appartamento privato di Lichodeev, e non facevano obiezioni.
— Benissimo, allora! — gridava Korov’ev.
Alquanto intronato dal suo cicaleccio, il presidente dichiarò che la cooperativa era pronta ad affittare per una settimana l’appartamento n. 50 all’artista Woland dietro corresponsione di… Nikanor Ivanovič esitò, e disse:
— Cinquecento rubli al giorno.
Qui Korov’ev lo sbalordí definitivamente. Ammiccando con aria furbesca in direzione della camera da letto, da dove giungeva il rumore degli agili salti del pesante gatto, disse rauco:
— Per una settimana, quindi, farebbe tremilacinquecento rubli?
Nikanor Ivanovič pensò che l’altro avrebbe soggiunto:
«Mica stupido, il nostro Nikanor Ivanovič», ma Korov’ev disse una cosa completamente diversa.
— Per lui è niente. Gliene chieda cinquemila, glieli darà.
Con un sorrisino confuso, Nikanor Ivanovič non si accorse neppure come si ritrovò accanto alla scrivania del defunto, dove, con rapidità e abilità grandissime, Korov’ev redasse un contratto in due copie. Poi volò in camera da letto e ne ritornò con le due copie munite della firma svolazzante dello straniero. Anche il presidente firmò il contratto. Poi Korov’ev chiese una ricevutina per cinque…
— Scriva in lettere, in lettere, Nikanor Ivanovič!… mila rubli… — e aggiunse parole che non sembravano intonarsi alla serietà dell’affare: — Ein, zwei, drei! — e pose davanti al presidente cinque pacchettini nuovi di banconote.
Venne fatto il conteggio, condito da battute e facezie di Korov’ev come «conti chiari, amici cari», «l’occhio del padrone…» e cosí via.
Dopo aver contato il denaro, il presidente ricevette da Korov’ev il passaporto dello straniero per la registrazione lo ripose nella cartella insieme al contratto e al denaro, e, non riuscendo a trattenersi, chiese timidamente un biglietto di favore…
— Ma figuriamoci! — ululò Korov’ev. — Quanti ne vuole Nikanor Ivanovič? Dodici? Quindici?
Sbalordito, il presidente spiegò che gliene bastava un paio, per lui e Pelageja Antonovna, sua moglie. Korov’ev tirò subito fuori un’agenda e con un ampio gesto scrisse che consegnassero a Nikanor Ivanovič due biglietti di favore per la prima fila. Con la sinistra, l’interprete ficcò destramente il biglietto in mano a Nikanor Ivanovič, mentre con la destra gli poneva nell’altra mano uno spesso plico scricchiolante. Nikanor Ivanovič gli gettò un’occhiata, arrossí e cercò di respingerlo.