Il sogno che Margherita aveva fatto quella notte era veramente insolito. È un fatto che durante il suo martirio invernale essa non aveva mai sognato il Maestro. Di notte la lasciava ed essa si tormentava soltanto durante le ore diurne. Ma quella volta l’aveva sognato.
Margherita aveva sognato un sito sconosciuto, desolato triste, sotto il cielo fosco della primavera precoce. Aveva sognato quel cielo grigiognolo, pezzato di nuvole in corsa e sotto uno stormo silenzioso di cornacchie. Un piccolo ponte rozzo, sotto di esso un torbido fiumicello primaverile. Alberi malinconici, stenti, semispogli. Una tremula solitaria e piú lontano, fra gli alberi, al di là di un orto, una casupola di tronchi, forse una cucina isolata, oppure un capanno da bagno o sa il diavolo che cosa! Tutto intorno un non so che di morto e di cosí triste, che veniva voglia d’impiccarsi a quella tremula vicino al ponticello. Che sito infernale per una persona viva!
Ed ecco, figuratevi, si spalanca la porta di questo edificio di tronchi e appare lui. È piuttosto lontano, ma chiaramente visibile. E lacero, non si riesce a capire che cosa indossi. Ha i capelli arruffati, la barba lunga. Occhi da ammalato, pieni d’apprensione. Le fa cenno con la mano, la chiama. Soffocando nell’aria morta, Margherita corse sulle zolle verso di lui e in quel momento si destò.
«Questo sogno significa soltanto due cose, — ragionava fra sé Margherita Nikolaevna. — Se è morto e mi faceva cenno, significa che è venuto a prendermi e che presto morrò. Sarebbe una bella cosa, perché cosí avrei finito di soffrire. Oppure è vivo, e allora il sogno può significare una cosa sola, che egli si ricorda di me! Vuol dire che ci rivedremo ancora… Sí, ci rivedremo molto presto!»
In quello stesso stato di eccitazione, Margherita si vestí e cominciò a persuadersi che, in fondo, tutto prendeva una piega molto favorevole e questi momenti favorevoli bisogna saperli cogliere e approfittarne. Suo marito era partito in missione per tre giorni interi. Per questi tre giorni essa era lasciata a se stessa, nessuno le avrebbe impedito di pensare a quel che voleva, di sognare quel che le piaceva. Tutte le cinque stanze dell’ultimo piano della palazzina, tutto questo appartamento che a Mosca le avrebbero invidiato decine di migliaia di persone, era a sua completa disposizione.
Eppure, rimasta libera per tre giorni interi, di tutto questo lussuoso appartamento Margherita scelse il posto di gran lunga peggiore. Dopo aver preso il tè, andò nella stanza buia, senza finestre, dove si custodivano le valige e ciarpame d’ogni genere in due grandi armadi. Si accoccolò davanti al primo di essi, aprí il cassetto inferiore e di sotto a un mucchio di ritagli di seta trasse l’unica cosa preziosa che possedesse nella vita. Fra le mani di Margherita comparve cosí un vecchio album di pelle bruna in cui c’era una fotografia del Maestro, un libretto di risparmio con un deposito di diecimila rubli, intestato a lui, i petali di una rosa secca, appiattiti in mezzo a foglietti di carta velina e un pezzo di quaderno, tutto un quinterno, scritto a macchina e col margine inferiore bruciacchiato.
Tornata con queste ricchezze nella sua camera da letto, Margherita Nikolaevna collocò la foto sullo specchio a tre luci e rimase seduta circa un’ora, tenendo sulle ginocchia il quaderno rovinato dal fuoco, sfogliandolo e rileggendo quello che, dopo la bruciatura, non aveva né capo né coda: «… Le tenebre venute dal Mediterraneo coprirono la città odiata dal procuratore. Scomparvero i ponti sospesi che univano il tempio alla terribile torre Antonia, calò dal cielo un gorgo che sommerse gli dèi alati sopra l’ippodromo, il palazzo degli Asmonei con le sue feritoie, i mercati, i caravanserragli, i vicoli, gli stagni… Sparí Jerushalajim, la grande città, come se non fosse mai esistita…»
Margherita avrebbe voluto leggere piú avanti, ma piú avanti non c’era nulla, all’infuori di una frangia disuguale carbonizzata.
Asciugandosi gli occhi, Margherita Nikolaevna depose il quaderno, appoggiò i gomiti sul tavolinetto che reggeva la specchiera e, riflessa nello specchio, rimase a lungo seduta senza staccare gli occhi dalla fotografia. Poi le lacrime si esaurirono. Margherita rimise insieme accuratamente i suoi averi; pochi minuti dopo erano di nuovo sepolti sotto gli straccetti di seta e la serratura si chiuse risonando nella stanza buia.
Margherita Nikolaevna indossò il mantello nell’ingresso per andare a passeggio. La bella Nataša, la sua cameriera, chiese che cosa doveva preparare come secondo piatto e ricevuta la risposta che ciò era indifferente, tanto per divertirsi avviò un discorso con la sua padrona e si mise a raccontare cose inaudite, per esempio che la sera prima al teatro un prestigiatore aveva eseguito certi giochi per cui tutti erano rimasti di stucco, aveva distribuito gratis a ognuno due boccette di profumo importato dall’estero e calze, ma poi, finito lo spettacolo, il pubblico era uscito nella via e tàcchete, tutti erano apparsi nudi! Margherita Nikolaevna si lasciò cadere sulla sedia sotto lo specchio dell’anticamera e scoppiò a ridere di gusto.
— Nataša! Via, come non si vergogna? — diceva Margherita Nikolaevna. — Una ragazza istruita, intelligente come lei… mentre fanno la coda raccontano tante di quelle frottole, e lei le ripete!
Nataša arrossí e replicò tutta infervorata che nessuno aveva raccontato frottole e che lei stessa quel giorno aveva visto coi suoi occhi nella drogheria sull’Arbat una signora che era entrata nel negozio con le scarpe e mentre pagava alla cassa, le scarpe le erano scomparse dai piedi ed era rimasta con le sole calze. Aveva sgranato gli occhi, nel calcagno c’era un buco! Ed erano scarpe fatate provenienti da quello stesso spettacolo!
— E se n’è andata via cosí?
— Sí, se n’è andata via cosí! — gridò Nataša, arrossendo sempre piú perché non le credevano. — E ieri notte, Margherita Nikolaevna, la polizia ha messo dentro un centinaio di persone. Dopo quello spettacolo c’erano delle signore che correvano per la Tverskaja con le sole mutandine addosso!
— Questo, naturalmente, l’avrà raccontato Dar’ja, — disse Margherita Nikolaevna. — Da un pezzo mi sono accorta che è una gran bugiarda.
Il comico discorso terminò con una sorpresa piacevole per Nataša. Margherita Nikolaevna andò in camera da letto e ne uscí tenendo in mano un paio di calze e un flacone d’acqua di colonia. Dicendo a Nataša che anche lei voleva fare un gioco di prestigio, Margherita Nikolaevna le regalò sia le calze che la boccetta e disse che la pregava di una cosa sola, di non correre con le sole calze per la Tverskaja e di non dar retta a Dar’ja. Dopo essersi abbracciate e baciate, padrona e cameriera si separarono.
Appoggiata al comodo, soffice schienale della poltrona del filobus, Margherita Nikolaevna procedeva lungo l’Arbat e a tratti pensava ai casi suoi, a tratti porgeva l’orecchio a quel che si bisbigliavano due signori seduti davanti a lei.
Ma quei due, che si voltavano ogni tanto per timore che qualcuno li sentisse, si sussurravano una storia assurda. Il tipo robusto, bene in carne, dai vispi occhietti porcini, seduto accanto al finestrino, parlava sottovoce col suo piccolo vicino di una bara che avevano dovuto chiudere con un panno nero…
— Ma non può essere! — sussurrava il piccoletto, sbalordito. — È una cosa inaudita!… E che ha fatto Želdybin?
In mezzo al rombo uniforme del filobus si sentiva dire dal finestrino:
— Istruttoria penale… uno scandalo… Insomma, un vero mistero!…
Con quei pezzetti frammentari Margherita Nikolaevna mise insieme alla meglio qualcosa di coerente. I due si sussurravano la storia di un defunto (di cui però non facevano il nome) al quale quel mattino avevano rubato la testa dalla bara. Era questo il motivo per cui, ora, quello stesso Želdybin era cosí turbato. E anche quei due che bisbigliavano in filobus dovevano avere a che fare col defunto derubato della testa.