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— Non mi riconosce! Neanche me riconosce! Lei capisce!… — singhiozzò la segretaria.

— La prego di non piangere nel mio ufficio, — disse, ormai adirato, il collerico vestito a righe, e con la manica trasse a sé una nuova pila di carte con l’evidente intenzione di firmarle.

— No, non posso vedere questo, non posso! — gridò Anna Ričardovna e corse in segreteria, e dietro a lei, come un proiettile, volò fuori anche il ragioniere.

— Si figuri, me ne sto lí seduta, — raccontava Anna Ričardovna, che rabbrividiva ancora dall’emozione e si era avvinghiata di nuovo alla manica della giacca del ragioniere, — ed ecco che entra un gatto. Nero, grasso come un ippopotamo. Io naturalmente gli grido «Passa via!» E lui via, ma al suo posto entra un grassone, anche lui con un muso che sembra di gatto, e mi fa: «Ma che modi sono, signorina, fare «pscttt» ai visitatori?!», e fila dritto da Prochor Petrovič. Io naturalmente gli corro dietro, e grido: «Ma è matto, lei?» e lui, sfacciato, va dritto da Prochor Petrovič e gli si siede davanti nella poltrona. Lui, sa… è una pasta d’uomo, ma un po’ nervoso. Si è arrabbiato, non lo discuto. Ha i nervi tesi, lavora come un negro, si è arrabbiato. «Lei perché entra senza farsi annunciare?», dice. E quell’insolente, si figuri, si stende nella poltrona e dice sorridendo: «Sono venuto da lei a parlare di un affaruccio». Di nuovo Prochor Petrovič si è arrabbiato: «Sono occupato». E l’altro, lei non ci crederà, risponde: «Lei non è affatto occupato»… Eh? Be’, qui naturalmente Prochor Petrovič ha perso la pazienza ed ha gridato: «Ma che roba è questa? Buttatelo fuori, il diavolo mi porti!» E l’altro, si figuri, sorride e dice: «Il diavolo se la porti? Perché no, d’accordo!» E zac! Non faccio in tempo a gridare, guardo, quello col muso da gatto non c’è piú, e lí c’è… c’è il vestito! Ueeeè!… — ululò Anna Ričardovna, spalancando la bocca che aveva perso ogni contorno.

Soffocando dai singhiozzi, riprese fiato, ma farfugliò qualcosa di insensato:

— E scrive, scrive, scrive! C’è da impazzire! Parla al telefono! Il vestito! Sono scappati tutti come lepri!

Il ragioniere non faceva che rabbrividire. Ma qui il destino lo aiutò. In segreteria con passo calmo e posato entrò la polizia, rappresentata da due uomini. Vedendoli, la bella segretaria singhiozzò ancora di piú, puntando la mano verso la porta dell’ufficio.

— Non piangiamo, signorina, — disse calmo il primo, e il ragioniere, sentendosi totalmente superfluo, balzò fuori dalla segreteria e un minuto dopo era all’aria aperta. Nella testa sentiva una specie di corrente d’aria, qualcosa ronzava come il tubo di una stufa, e in quel ronzio si udivano frammenti dei racconti degli inservienti del teatro sul gatto che aveva partecipato allo spettacolo. «Ohè! Non sarà mica stato il nostro gattino?»

Non avendo potuto venire a capo di niente nella Commissione, lo scrupoloso Vasilij Stepanovič decise di recarsi alla filiale, che si trovava nel vicolo Vagan’kovskij, e, per calmarsi un po’, fece la strada a piedi.

La filiale urbana degli spettacoli si trovava in una palazzina scrostata per il tempo in fondo a un cortile ed era celebre per le colonne di porfido del vestibolo. Quel giorno però i visitatori non erano impressionati dalle colonne, bensí da quello che avveniva attorno ad esse.

Alcuni visitatori stavano come impietriti a guardare una signorina piangente seduta a un tavolino coperto di pubblicazioni teatrali, della cui vendita essa era l’incaricata. In quel momento, però, essa non offriva alcuna pubblicazione, e alle domande compassionevoli rispondeva con un gesto della mano, mentre dall’alto, dal basso, dai lati, insomma da tutti i reparti della filiale si riversavano gli squilli ininterrotti di almeno venti telefoni.

Dopo aver versato qualche lacrima, la signorina sussultò, urlò istericamente:

— Ricomincia! — ed attaccò a cantare con una tremula voce da soprano:

Celebre mare, sacro Bajkal…

Il fattorino, apparso sulla scala, minacciò qualcuno col pugno, e accompagnò la signorina, con una voce baritonale fioca e inespressiva:

La bella nave è un barile di pesci…

Alla voce del fattorino si unirono voci lontane, il coro prese a crescere e, alla fine, la canzone risuonò in tutti gli angoli della filiale. Nella vicina stanza n. 6, dove si trovava il reparto contabile di controllo, si distingueva una voce potente ma un po’ velata di un basso profondo. Il coro era accompagnato dal crescente strepitio degli apparecchi telefonici.

Ehi, vento del nord, muovi l’onda!…

urlava il fattorino sulla scala.

Le lacrime scorrevano sul viso della ragazza; essa cercava di stringere i denti, ma la sua bocca si apriva da sola, ed essa cantava di un’ottava piú su del fattorino:

Il giovanotto non deve andar lontano!…

I muti visitatori della filiale erano stupiti dal fatto che i coristi, sparsi in vari posti, cantassero all’unisono come se l’intero coro non staccasse gli occhi da un invisibile direttore.

Coloro che passavano per il vicolo Vagan’kovskij si fermavano presso l’inferriata dell’ingresso, meravigliandosi dell’allegria che regnava nella filiale.

Non appena la prima strofa giunse alla fine, il canto cessò di colpo, di nuovo come ubbidendo alla bacchetta di un direttore. Il fattorino imprecò a bassa voce e sparí.

Si aprí la porta principale e apparve un signore con un soprabito dal quale spuntavano le falde di un camice bianco e con lui un poliziotto.

— Faccia qualcosa, dottore, la supplico! — gridò istericamente la ragazza.

Corse fuori sulla scala il segretario della filiale, e, ardendo visibilmente di vergogna e d’imbarazzo, disse in un balbettio:

— Vede, dottore, abbiamo qui un caso di ipnosi collettiva, è quindi necessario… — Non terminò la frase, cominciò a impappinarsi e attaccò con voce tenorile:

Silka e Nercinsk…

— Cretino! — fece in tempo a gridare la ragazza, ma non spiegò con chi ce l’avesse, ed emise invece un trillo forzato, cantando anche lei di Silka e Nercinsk.

— Si padroneggi! La smetta di cantare! — disse il dottore al segretario.

Tutto attestava che questi avrebbe dato qualsiasi somma pur di smettere di cantare, ma smettere non poteva e, insieme col coro, portò a conoscenza di coloro che passavano per la strada che «nella boscaglia non lo toccò la belva vorace, e le pallottole dei tiratori non lo raggiunsero».

Non appena la strofa finí, la ragazza ricevette per prima una dose di valeriana dal medico, che corse poi dagli altri impiegati dietro al segretario, per dar la medicina anche a loro.

— Scusi, signorina, — disse a un tratto Vasilij Stepanovič alla ragazza. — Non è stato qui da voi un gatto nero?

— Che gatto d’Egitto? — urlò quella, rabbiosa. — Un asino abbiamo in filiale, un asino! — E dopo aver soggiunto:

Mi stia a sentire, racconterò tutto, — raccontò per davvero quanto era avvenuto.

Risultò che il direttore della filiale cittadina, «che aveva definitivamente rovinato gli spettacoli leggeri» (secondo le parole della ragazza), soffriva della mania di organizzare ogni tipo di circoli ricreativi.

— Gettava il fumo negli occhi ai dirigenti! — urlava la ragazza.

Nel corso di un anno egli era riuscito a organizzare un circolo di studio dell’opera poetica di Lermontov, uno per il gioco degli scacchi e della dama, uno di ping-pong e uno di equitazione. Per l’estate, minacciava di organizzare un club di rematori d’acqua dolce, e uno di alpinisti. Ed ecco, che nell’intervallo di mezzogiorno, entra il direttore…

— …in compagnia di un figlio di cane, — continuava la ragazza, — saltato fuori da chi sa dove, con certi pantaloni a quadretti, gli occhiali a molla incrinati e… un ceffo che te lo raccomando!…

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