Varenucha cominciò a raccontare i particolari. Non appena era giunto nel luogo dove lo aveva inviato il direttore finanziario, era stato immediatamente ricevuto e ascoltato con la piú viva attenzione. Nessuno, s’intende, voleva nemmeno prendere in considerazione la possibilità che Stepa fosse a Jalta. Tutti avevano accolto subito il suggerimento di Varenucha che Lichodeev doveva naturalmente trovarsi al Jalta di Puškino.
— Dov’è adesso? — Lo interruppe l’emozionato direttore.
— Dove vuoi che sia? — rispose l’amministratore con un sorriso forzato. — In guardina a smaltire la sbornia, per forza!
— Accidenti! questa sí che è bella!
Varenucha continuò il suo racconto, e piú raccontava, piú vistosa si svolgeva davanti agli occhi del direttore finanziario la catena lunghissima delle villanate e delle indecenze commesse da Lichodeev, e ogni anello di questa catena era peggiore del precedente. Anche solo la danza ebbra, abbracciato al telegrafista, sull’aiuola davanti all’ufficio telegrafico di Puškino al suono di un organetto vagabondo! L’inseguimento di certe signore che strillavano dallo spavento! La tentata rissa col barista del Jalta! Le cipolline verdi sparse sul pavimento nella stessa trattoria. La rottura di otto bottiglie di Aj-Danil’ bianco secco. Lo sconquasso del tassametro di un tassí, il cui autista non voleva cedere la macchina a Stepa. La minaccia di arrestare le persone che cercavano di porre fine alle porcherie di Stepa… Insomma, roba da far rizzare i capelli!
Stepa era ben noto negli ambienti teatrali di Mosca, e tutti sapevano che non era uno stinco di santo. Però quello che di lui raccontava l’amministratore era troppo perfino per Stepa. Sí, troppo, troppissimo…
Gli occhi pungenti di Rimskij trafiggevano, al di sopra della scrivania, il volto dell’amministratore, e piú questi parlava, piú quegli occhi s’incupivano. Piú diventavano vivi e coloriti gli ignominiosi particolari di cui l’amministratore infiorava la sua narrazione, meno il direttore finanziario prestava fede al narratore. Quando poi Varenucha comunicò che Stepa era giunto al punto di opporre resistenza a quelli che erano arrivati per riportarlo a Mosca, il direttore finanziario sapeva fermamente che tutto ciò che gli stava raccontando l’amministratore tornato a mezzanotte era una menzogna! Menzogna dalla prima all’ultima parola!
Varenucha non era andato a Puškino, e neanche Stepa vi era stato. Non esisteva il telegrafista ubriaco, non erano stati rotti i vetri della trattoria. Stepa non era stato legato con delle corde… Niente di tutto questo era avvenuto.
Non appena il direttore finanziario si convinse che l’amministratore gli mentiva, la paura strisciò lungo il suo corpo cominciando dai piedi, e di nuovo gli parve, per due volte, di sentire passare per terra un umido miasma malarico. Senza distogliere per un solo istante gli occhi dall’amministratore, che si torceva stranamente nella poltrona, tentando per tutto il tempo di non uscire dall’ombra azzurrognola della lampada da tavolo, e riparandosi curiosamente con un giornale dalla luce che (affermava) gli dava fastidio, il direttore finanziario pensava a una cosa sola: che significato poteva avere tutta quella storia? Perché, nel deserto e silente edificio, gli mentiva cosí spudoratamente l’amministratore, tornato troppo tardi? La consapevolezza di un pericolo, di un pericolo sconosciuto ma terribile, cominciò a struggere l’animo di Rimskij. Facendo finta di non accorgersi dei contorcimenti di Varenucha e dei suoi trucchi col giornale, il direttore scrutava il suo viso quasi senza piú ascoltare le sue panzane. C’era qualcosa che gli pareva ancora piú inspiegabile del racconto calunnioso, inventato non si sapeva perché, delle avventure di Puškino, e quel qualcosa era un cambiamento nell’aspetto e nei modi dell’amministratore.
Per quanto tirasse sugli occhi la visiera a punta del berretto per tenere in ombra il viso, per quanto si contorcesse col foglio di giornale, il direttore finanziario riuscí a intravedere un enorme livido sul lato destro della faccia, vicino al naso. Inoltre, l’amministratore, solitamente molto colorito, era pallido, di un pallore morboso di gesso, e, nonostante la notte afosa, il suo collo era avvolto da una vecchia sciarpa a righe. Se si aggiunge la ripugnante abitudine, che gli era venuta durante l’assenza, di succhiare e schioccare la bocca, il brusco cambiamento della sua voce, divenuta rozza e sorda, l’espressione furtiva e vigliacca degli occhi, si poteva senz’altro dire che Ivan Savel’evic Varenucha era diventato irriconoscibile.
Qualcosa preoccupava in modo ancora piú bruciante il direttore, però che cosa fosse non riusciva a capirlo per quanto si sforzasse il cervello infiammato e per quanto fissasse Varenucha. Poteva affermare una cosa sola: c’era qualcosa di straordinario e d’innaturale in quel congiungimento dell’amministratore con la ben nota poltrona.
— Be’, alla fine hanno avuto la meglio e l’hanno caricato in macchina, — ronzava Varenucha guardando da dietro il giornale e nascondendo il livido con la palma di una mano.
A un tratto Rimskij tese il braccio e, come se facesse un movimento istintivo, mentre tamburellava con le dita sul tavolo premette con la palma della mano il campanello, e s’irrigidí. Nell’edificio deserto si sarebbe dovuto sentire un secco segnale. Ma il segnale non ci fu e il pulsante affondò senza vita nel piano del tavolo. Il pulsante era morto, il campanello era guasto.
Lo stratagemma del direttore non sfuggí a Varenucha che chiese con un sussulto, mentre nei suoi occhi balenava un chiaro fuoco rabbioso:
— Perché suoni?
— L’ho fatto istintivamente, — rispose con voce sorda il direttore finanziario, ritraendo la mano, e a sua volta chiese con voce vacillante: — che cos’hai alla faccia?
— La macchina ha sbandato, ho urtato contro la maniglia, — rispose Varenucha evitando di guardarlo.
«Mente!» esclamò fra sé il direttore. In quel momento i suoi occhi diventarono tondi e assolutamente folli, ed egli fissò lo schienale della poltrona.
In terra, dietro la poltrona, c’erano due ombre incrociate, una piú densa e piú nera, l’altra debole e grigia. Si riflettevano chiaramente sul pavimento le ombre dello schienale e dei piedi appuntiti della poltrona, ma sopra l’ombra dello schienale mancava l’ombra della testa di Varenucha, cosí come sotto l’ombra dei piedi della poltrona mancava quella delle gambe dell’amministratore.
«Non getta ombra!» urlò tra sé disperato Rimskij. E un tremito lo scosse.
Varenucha guardò furtivamente dietro di sé, seguendo lo sguardo folle di Rimskij oltre lo schienale della poltrona e capí di essere stato scoperto. Si alzò dalla poltrona (cosí pure fece il direttore finanziario) e arretrò di un passo dalla scrivania, stringendo in mano la cartella.
— Hai indovinato, maledetto! Sei sempre stato un dritto, — disse Varenucha con un ghigno cattivo in faccia al direttore, balzò inaspettatamente dalla poltrona verso la porta e rapido spinse in basso il pulsante della serratura di sicurezza. Il direttore guardò disperato dietro di sé, arretrando verso la finestra che dava sul giardino, e in quella finestra inondata di luna vide, pressato contro il vetro il volto di una ragazza nuda e il suo braccio nudo che, infilato nello sportello di aerazione, cercava di spingere il paletto inferiore. Quello superiore era già aperto.
A Rimskij sembrò che la luce della lampada da tavolo si spegnesse e che la scrivania s’inclinasse. Un’ondata gelida lo coprí, ma — per sua fortuna — si dominò e non cadde. Il resto delle sue forze gli bastò per sussurrare, ma non gridare:
— Aiuto…
Varenucha, che stava di guardia alla porta, faceva dei salti, fermandosi a lungo a mezz’aria e ondeggiando. Con le dita adunche faceva dei segni a Rimskij, sibilava e schioccava le labbra, ammiccava alla ragazza alla finestra.
Quella si affrettò, infilò la testa rossa nello sportellino, allungò il braccio piú che poté, cominciò a graffiare il paletto inferiore e a scuotere l’intelaiatura. Il braccio cominciò ad allungarsi come se fosse di gomma e si coprí di macchie verdi cadaveriche. Finalmente, le verdi dita della morta afferrarono la sfera del paletto, la spostarono e la finestra cominciò ad aprirsi. Rimskij gettò un debole grido, si appoggiò al muro e protese la cartella come uno scudo. Capiva che era giunta la sua ultima ora.