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Quando si calmò, dissi:

— Ho preso in odio questo romanzo, e ho paura. Sono malato. Ho terrore.

Si alzò e parlò:

— Dio, come sei malato. Perché, perché? Ma ti salverò, ti salverò. Che cos’è tutto questo?

Vedevo i suoi occhi gonfi per il pianto e il fumo, sentivo le sue mani fredde accarezzarmi la fronte.

— Ti guarirò, ti guarirò, — mormorava, stringendomi le spalle. — Lo scriverai di nuovo. Perché, perché non ne ho tenuto una copia?

Digrignò i denti dalla rabbia, disse altre cose, incomprensibili. Poi, stringendo le labbra, si mise a raccogliere e stirare i fogli bruciacchiati. Era un capitolo centrale del romanzo, non ricordo piú quale. Raccolse con cura i fogli, li avvolse in un pezzo di carta, li legò con un nastro. Tutte le sue azioni mostravano che era piena di risolutezza e ormai padrona di sé. Chiese del vino, e dopo averne bevuto, parlò con piú calma:

— Ecco come si pagano le menzogne, — diceva, — non voglio piú mentire. Rimarrei con te anche subito, ma non vorrei farlo in questo modo. Non voglio che gli resti per sempre il ricordo che sono scappata da casa di notte. Non mi ha mai fatto un torto… È stato chiamato all’improvviso per un incendio scoppiato nella fabbrica dove lavora. Ma tornerà presto. Avrò una spiegazione con lui domattina, dirò che amo un altro e tornerò da te per sempre. Rispondimi, forse non vuoi?

— Povera cara, cara, — le dissi. — Non ti permetterò di farlo. Con me starai male, e non voglio che tu perisca con me.

— È questo l’unico motivo? — chiese, avvicinando i suoi occhi ai miei.

— L’unico.

Si animò straordinariamente, si strinse a me, abbracciandomi il collo, e disse:

— Perisco con te. Domattina sarò da te.

Ecco, l’ultima cosa della mia vita che io ricordi, è una striscia di luce dalla mia anticamera, e, in questa striscia una ciocca di capelli disfatta, il suo berretto e gli occhi pieni di risolutezza. Ricordo anche la sagoma nera sulla soglia della porta esterna e il pacchetto bianco.

— Ti accompagnerei, ma non ho piú la forza di tornare indietro da solo, ho paura.

— Non aver paura. Abbi pazienza per poche ore. Domattina sarò da te.

Queste furono le sue ultime parole nella mia vita…

— Sttt!… — l’ammalato si interruppe all’improvviso e alzò il dito. — È inquieta questa notte di luna.

Scomparve sul balcone. Ivan udí una lettiga passare in corridoio, qualcuno singhiozzò o gemette.

Quando tutto ridivenne silenzioso, l’ospite tornò e comunicò che la camera n. 120 aveva un ospite. Avevano portato qualcuno che continuava a supplicare che gli rendessero la sua testa. I due interlocutori tacquero preoccupati, ma, tranquillizzatisi, tornarono alla narrazione interrotta. L’ospite stava per aprire la bocca, ma la notte era davvero movimentata. Si sentirono ancora delle voci nel corridoio, e il visitatore cominciò a parlare all’orecchio di Ivan cosí piano che il suo racconto fu sentito soltanto dal poeta, ad eccezione della prima frase:

— Un quarto d’ora dopo che mi ebbe lasciato, bussarono alla mia finestra…

Ciò che il malato sussurrava all’orecchio di Ivan, gli causava evidentemente una profonda emozione. Delle contrazioni alteravano continuamente il suo viso. Nei suoi occhi aleggiavano e si agitavano la paura e il furore. Il narratore puntava la mano in direzione della luna, che da tempo aveva abbandonato il balcone. Solo quando dall’esterno cessarono di arrivare i rumori, l’ospite si scostò da Ivan e parlò con voce piú forte:

— Sí, e allora a metà gennaio, di notte, con quello stesso soprabito, ma che aveva oramai i bottoni strappati, mi rannicchiavo dal freddo nel mio cortile. Dietro di me mucchi di neve avevano coperto i lillà, davanti a me e sotto c’erano le mie finestre coperte dalle tende e debolmente illuminate. Mi appoggiai alla prima e stetti in ascolto: nelle mie stanze suonava un grammofono. Fu la sola cosa che udii, ma non riuscii a vedere nulla. Rimasi lí un po’, quindi uscii dal cancello nel vicolo. Vi soffiava la tormenta. Mi spaventò un cane che mi si buttò sotto i piedi, e per sfuggirlo attraversai di corsa la strada. Il freddo e la paura, che era diventata la mia compagna inseparabile, mi portavano all’esasperazione. Non avevo dove andare. La cosa piú semplice, naturalmente, sarebbe stata buttarmi sotto uno dei tram che transitavano nella via in cui sboccava il mio vicolo. Da lontano vedevo quei cassoni ricoperti di ghiaccio e pieni di luce e udivo il loro ripugnante stridore nel gelo. Ma, caro mio vicino, il fatto era che la paura dominava ogni cellula del mio corpo. E come temevo il cane, temevo anche il tram. Sí, in questo edificio non c’è malattia peggiore della mia, glielo assicuro!

— Poteva ben farglielo sapere, — disse Ivan, pieno di compassione per il povero ammalato. — Inoltre, il suo denaro non ce l’ha lei? Glielo avrà conservato, no?

— Non dubiti, certo che l’ha conservato. Ma si vede che lei non mi capisce. O meglio, ho perso la capacità, che possedevo un tempo, di descrivere le cose. Del resto, non mi dispiace molto, perché non ne avrò piú bisogno. Si troverebbe davanti — l’ospite guardò con venerazione il buio della notte — una lettera dal manicomio. Mi dica lei se si può mandare una lettera, quando si ha un indirizzo del genere… Un malato di mente?… Lei scherza, amico mio! Renderla infelice? No, non ne sono capace.

Ivan non seppe replicare, ma, muto, compativa l’ospite, ne sentiva pietà. E quegli, tormentato dai ricordi, scuoteva la testa coperta dal berretto nero, e diceva:

— Povera donna… Del resto, spero che mi abbia dimenticato…

— Ma lei può guarire… — disse con timidezza Ivan.

— Sono inguaribile, — rispose calmo l’ospite. — Quando Stravinskij dice che mi restituirà alla vita, non gli credo. È pieno d’umanità e vuole semplicemente consolarmi.

Non voglio negare, peraltro, di stare meglio adesso. Ah sí, dove ero rimasto? Il gelo, quei tram che filavano… Sapevo che avevano già aperto questa clinica, e attraversai la città a piedi per venirci. Follia! Sarei certamente morto congelato nella campagna, ma un caso mi salvò. Un camion aveva avuto un guasto, io mi avvicinai all’autista — era circa quattro chilometri oltre la cinta daziaria — e, con mia grande sorpresa, egli ebbe pietà di me. La macchina era diretta alla clinica, e mi diede un passaggio. Me la cavai con un congelamento delle dita del piede sinistro. Ma me lo guarirono. E adesso sono qui da oltre tre mesi. Sa, trovo che qui non si sta poi tanto male. Non bisogna proporsi piani grandiosi, caro vicino! Io, ad esempio, volevo fare il giro del mondo. Si vede che non è il mio destino. Conosco solo un piccolissimo pezzetto di mondo. Penso che non sia il migliore, ma, ripeto, non è poi male. Adesso arriva l’estate, e sul balcone ci sarà l’edera, come assicura Praskov’ja Fëdorovna. Le chiavi hanno allargato le mie possibilità. Di notte ci sarà la luna. Oh, se ne è andata. Fa fresco. È ormai mezzanotte passata. È ora che io vada.

— Mi dica, che cos’è successo poi a Jeshua e a Pilato? chiese Ivan. — La supplico, lo voglio sapere.

— Oh no, no! — rispose l’ospite con una smorfia di dolore. — Non posso ricordare il mio romanzo senza rabbrividire. Il suo conoscente dei Patriaršie lo farebbe meglio di me. Grazie della conversazione. Arrivederci.

E prima che Ivan reagisse, l’inferriata si richiuse con un lieve tintinnio, e l’ospite sparí.

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