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— Merci, — rispose altera la donna e scese in platea.

Mentre avanzava, gli spettatori balzavano in piedi per toccare l’astuccio.

Successe il finimondo: da tutte le parti le donne cominciarono a salire sul palcoscenico. Nell’eccitato rumore generale di voci, di risate e di sospiri si udí una voce maschile: «Non ti permetto!», poi una femminile: «Despota! Borghesuccio! Mi rompi il braccio!» Le donne scomparivano dietro la tenda, vi lasciavano i propri vestiti e ritornavano indossandone dei nuovi. Su sgabelli dai piedi dorati sedeva tutta una fila di signore che pestavano energicamente il tappeto con il piede calzato a nuovo. Fagotto s’inginocchiava, si dava da fare con un calzatoio di metallo; il gatto, allo stremo delle forze sotto montagne di borsette e di scarpe, si trascinava dalla vetrina agli sgabelli e viceversa; la ragazza dal collo deturpato ora appariva ora scompariva, arrivando al punto di cicalare solo in francese ed era sorprendente che la capissero a volo tutte le donne, perfino quelle che non sapevano una parola di quell’idioma.

Un uomo che si intrufolò sul palcoscenico provocò lo stupore generale. Spiegò che sua moglie aveva l’influenza, e pregava quindi di farle avere qualcosa tramite suo. A comprovare il fatto che fosse effettivamente sposato, il signore era pronto a esibire la carta d’identità. La dichiarazione del premuroso marito fu accolta da grandi risate. Fagotto urlò che anche senza passaporto si fidava come di se stesso, e consegnò al signore due paia di calze di seta, mentre il gatto prese l’iniziativa di aggiungere un vasetto di crema di bellezza.

Le ritardatarie si precipitarono verso il palcoscenico, da cui scendeva una fiumana di donne felici con vestiti da ballo, pigiami ricamati con draghi, severi tailleur, cappellini inclinati su un sopracciglio.

Fagotto dichiarò a quel punto che, data l’ora, il negozio sarebbe stato chiuso, tra un minuto esatto fino alla sera successiva, e sul palcoscenico scoppiò il finimondo. Le donne afferravano le scarpe alla svelta, senza neppure misurarle. Una irruppe come un fulmine dietro la tenda, si strappò di dosso il vestito e s’impadroní della prima cosa che le capitò sottomano: una vestaglia di seta ornata di enormi mazzi di fiori, e fece in tempo ad arraffare anche due flaconi di profumo.

Un minuto esatto piú tardi echeggiò un colpo di pistola, e gli specchi scomparvero, sprofondarono vetrine e sgabelli, il tappeto si sciolse in aria, come pure la tenda. Per ultima sparí l’altissima montagna di vestiti e scarpe vecchie, e il palcoscenico ridiventò severo, vuoto e nudo.

Fu allora che un nuovo personaggio s’immischiò. Una gradevole voce baritonale, sonora e molto insistente, echeggiò dal palco n. 2.

— Sarebbe desiderabile, signor artista, che lei smascherasse senza ulteriore ritardo davanti agli spettatori la tecnica dei suoi trucchi, e in particolare il trucco con le banconote. Sarebbe anche opportuno il ritorno in palcoscenico del presentatore. La sua sorte preoccupa gli spettatori.

Quella voce baritonale non apparteneva ad altri che all’ospite d’onore della serata, Arkadij Apollonovič Semplejarov, presidente della Commissione acustica dei teatri di Mosca.

Arkadij Apollonovič si trovava in un palco con due signore: l’una anziana, che indossava un costoso vestito alla moda, l’altra, giovane e carina, vestita in modo piú modesto. La prima, come si venne a sapere poco dopo, quando si stese il verbale, era la moglie di Arkadij Apollonovič, la seconda una sua lontana parente, un’attrice principiante di grandi speranze, arrivata da Saratov, che viveva in casa dei coniugi Semplejarov.

— Pardon! — replicò Fagotto. — Chiedo scusa, qui non c’è niente da smascherare, tutto è chiaro.

— No, mi perdoni! È assolutamente necessario smascherare tutto. Altrimenti i vostri brillanti numeri lasceranno un’impressione penosa. La massa degli spettatori esige una spiegazione.

— La massa degli spettatori, — lo interruppe l’insolente buffone, — mi pare non abbia chiesto un bel nulla. Prendendo tuttavia in considerazione il suo stimabilissimo desiderio, Arkadij Apollonovič, d’accordo, procederò allo smascheramento. Ma a tale scopo mi permetta ancora un numeruccio piccolo piccolo.

— Perché no, — rispose con aria di protezione Arkadij Apollonovič, — ma non deve mancare lo smascheramento.

— Signorsí, signorsí. Mi permetta dunque di chiederle: dov’è stato ieri sera, Arkadij Apollonovič?

A questa domanda fuori posto, e forse persino villana, il volto di Arkadij Apollonovič cambiò, e cambiò in modo assai forte.

— Ieri sera, Arkadij Apollonovič presenziava a una seduta della Commissione acustica, — dichiarò con fare molto altero la moglie di Arkadij Apollonovič, — ma non capisco che rapporto abbia questo con la magia.

— Oui, madame! — confermò Fagotto. — Naturalmente, lei non capisce. In quanto alla seduta, lei è in completo errore. Uscito per recarsi alla predetta seduta, la quale, tra parentesi, non era affatto indetta per ieri, Arkadij Apollonovič lasciò libero il suo autista presso l’edificio della Commissione, agli stagni Cistye, — (l’intero teatro stava col fiato sospeso), — e con l’autobus si recò in via Elochovskaja a far visita a Milica Andreevna Pokobat’ko, attrice della compagnia viaggiante rionale, e vi rimase per circa quattro ore.

— Ohi! — esclamò qualcuno con voce sofferente tra il silenzio generale.

La giovane parente di Arkadij Apollonovič sbottò a ridere con voce bassa e terribile.

— Capisco tutto! — esclamò.- Lo sospettavo da tempo. Adesso so perché quella nullità ha avuto la parte di Luisa!!

E con un inatteso slancio, calò il suo corto e grosso ombrello viola sulla testa di Arkadij Apollonovič.

Il vile Fagotto, ossia Korov’ev, esclamò:

— Ecco, egregi signori, un esempio di quello smascheramento che Arkadij Apollonovič esigeva con tanta insistenza!

— Canaglia, come hai osato toccare Arkadij Apollonovič? — chiese con voce minacciosa la moglie di Semplejarov, ergendosi nel palco in tutta la sua gigantesca statura.

Un secondo scoppio di riso satanico s’impadroní della giovane parente.

— Se qualcuno ha il diritto di toccarlo, — rispose sghignazzando — quella sono io! — E per la seconda volta si udí il rumore secco dell’ombrello che rimbalzò dalla testa di Arkadij Apollonovič.

— Polizia! Pigliatela! — urlò la moglie con voce cosí tremenda che molti sentirono raggelarsi il cuore.

Come se non bastasse, il gatto balzò verso la ribalta, e ringhiò per tutto il teatro con voce umana:

— Lo spettacolo è finito! Maestro! Ci spari una marcia!

Il direttore d’orchestra, mezzo istupidito, senza rendersi conto di quel che faceva, alzò la bacchetta, e l’orchestra non suonò, neppure attaccò, neppure scatenò, ma, secondo la disgustosa espressione del gatto, sparò una marcetta inverosimile, di una sfacciataggine inaudita.

Per un istante sembrò che un tempo, sotto le stelle del Sud, nei café-chantant, si fossero già sentite le parole poco comprensibili, quasi insensate ma smargiasse di quella marcetta:

Sua eccellenza
Amava le pollastrelle
E proteggeva
Le pupette belle!!!

Ma forse non esistevano affatto quelle parole, ma altre, sullo stesso motivo, oltremodo indecenti. Questo però non importa: importa che al Varietà cominciò allora una vera babele. Verso il palco di Semplejarov correva la polizia, i curiosi si arrampicavano fin sulla balaustra, si udivano scoppi di risate infernali, urla furiose, coperte dal suono dei piatti dorati dell’orchestra.

Si vide il palcoscenico diventare vuoto all’improvviso, e Fagotto il furfante e l’insolente gattaccio Behemoth si disciolsero nell’aria, scomparendo come prima era scomparso il mago con la poltrona dalla fodera sbiadita.

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