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— Sta diventando interessante, — borbottò tra i denti Varenucha, accompagnando con lo sguardo la donna che si allontanava in fretta. Il primo a impadronirsi del foglio fu Rimskij.

Sullo sfondo scuro di una carta per stampa fotografica risaltavano chiaramente alcune righe scritte in nero:

«PROVA MIA CALLIGRAFIA MIA FIRMA TELEGRAFATE CONFERMA ORGANIZZATE SORVEGLIANZA SEGRETA WOLAND. LICHODEEV».

In vent’anni di attività nei teatri, Varenucha ne aveva viste di tutti i colori, ma qui sentí che era come se la sua ragione gli si ricoprisse di un velo, e non seppe pronunciare altro che la frase banale e totalmente assurda:

— Questo non è possibile!

Rimskij invece reagí in modo diverso. Si alzò, aprí la porta, gridò all’inserviente seduta su uno sgabello:

— Non faccia entrare nessuno tranne il postino! — e chiuse la porta a chiave.

Poi prese dalla scrivania un mucchio di carte e cominciò a confrontare con cura le lettere grasse, pendenti verso sinistra, del telegramma con quelle degli ordini emanati da Stepa e con le sue firme, munite di uno svolazzo a viticcio.

Varenucha, ripiegato sul tavolo, soffiava il suo alito ardente sulla guancia di Rimskij.

— È la sua calligrafia, — disse infine con voce sicura il direttore finanziario, e Varenucha ripeté come un’eco:

— È la sua.

Fissando Rimskij, l’amministratore si sorprese del cambiamento avvenuto sul suo volto. Il direttore finanziario, già magro, sembrava essere ancora piú dimagrito e persino invecchiato, e i suoi occhi, nella montatura di corno, avevano perso l’abituale mordacità, in essi si leggeva non solo l’inquietudine, ma anche la tristezza.

Varenucha fece quello che si usa fare nei momenti di grande sbalordimento. Corse avanti e indietro per l’ufficio, alzò due volte le braccia al cielo come un crocefisso tracannò un bicchiere dell’acqua giallastra della caraffa, ed esclamò:

— Non capisco! Non capisco! Non ca-pi-sco!

Rimskij invece guardava dalla finestra e pensava a qualcosa con concentrazione. La posizione del direttore finanziario era molto difficile. Era necessario inventare immediatamente, su due piedi, spiegazioni ordinarie per fenomeni straordinari.

Con gli occhi socchiusi, egli si raffigurava Stepa, in camicia da notte e senza scarpe, che saliva verso le undici e mezzo di quel giorno in un fantastico aereo superveloce, e poi sempre lui, Stepa, sempre alle undici e mezzo, coi soli calzini ai piedi, all’aeroporto di Jalta… chi diavolo ci capiva qualcosa?!

Forse non era stato Stepa a parlargli, quella mattina, al telefono dal proprio appartamento? No, chi parlava era proprio lui! Figuriamoci se lui, Rimskij, non conosceva la voce di Stepa! Ma anche se gli avesse telefonato qualcun altro, non piú tardi di ieri, verso sera, Stépa in persona era venuto dal suo ufficio in questo con quello stupido contratto, irritando il direttore finanziario con la sua sventatezza. Come era potuto partire senza dire niente in teatro?

Ma anche se avesse preso l’aereo la sera prima, non poteva essere già sul posto a mezzogiorno del giorno successivo! Oppure poteva?

— Quanti chilometri ci sono fino a Jalta? — chiese.

Varenucha smise di correre avanti e indietro e urlò:

— Ci ho pensato! Ci ho già pensato! Fino a Sebastopoli per ferrovia ci sono circa millecinquecento chilometri, poi fino a Jalta aggiungine ancora un’ottantina! Be’, con l’aereo sono meno, naturalmente.

Hm… già… Ai treni non c’era neanche da pensare. Ma allora? Un caccia? Chi avrebbe fatto salire Stepa senza scarpe su un caccia? Perché? Forse si era tolto le scarpe quand’era arrivato a Jalta? Di nuovo: perché? Ma anche con le scarpe, non lo avrebbero lasciato salire su un caccia! E poi il caccia non c’entrava. Avevano pur scritto che era arrivato negli uffici della Pubblica sicurezza di Jalta alle undici e mezzo, e aveva telefonato da Mosca… un momento… (davanti a Rimskij apparve l’immagine del quadrante del suo orologio).

Rimskij cercava di ricordare dove fossero le lancette… Orrore! Segnavano le undici e venti!

Ma come poteva essere? Supponendo che, subito dopo la conversazione, Stepa si fosse precipitato all’aeroporto, e vi fosse giunto, diciamo, cinque minuti dopo (cosa, del resto, impensabile), vorrebbe dire che l’aereo — se fosse decollato subito — avrebbe dovuto percorrere in cinque minuti oltre mille chilometri. Di conseguenza, in un’ora percorrere oltre dodicimila chilometri! Il che era impossibile, quindi non era a Jalta!

Che restava? L’ipnosi? Non c’è al mondo un’ipnosi capace di scaraventare un uomo a mille chilometri di distanza! Allora s’immaginava soltanto di essere a Jalta? Lui magari s’immaginava, ma s’immaginava anche la Pubblica sicurezza?! No, no, scusate, sono cose che non succedono!… Eppure avevano telegrafato di laggiú!

Il volto del direttore finanziario faceva letteralmente paura. Nel frattempo la maniglia della porta veniva girata e scrollata dall’esterno, e si sentiva l’inserviente gridare istericamente dietro la porta:

— Non si può! Non vi lascio passare! Anche se mi ammazzate! Sono in riunione!

Rimskij si padroneggiò quanto poté, prese il ricevitore e disse:

— Voglio una comunicazione urgentissima con Jalta.

«Un’idea intelligente», esclamò Varenucha tra sé.

Ma la conversazione telefonica con Jalta non ebbe luogo. Rimskij depose il ricevitore dicendo:

— Sembra lo facciano apposta: la linea è guasta.

Si vedeva che il guasto alla linea lo indisponeva in modo particolare e lo rendeva perfino pensieroso. Dopo aver riflettuto un po’, prese di nuovo il ricevitore in una mano, mentre con l’altra trascriveva ciò che andava dicendo al telefono:

— Telegramma lampo. Varietà. Sí. Pubblica sicurezza Jalta. Sí. «OGGI CIRCA UNDICI TRENTA LICHODEEV TELEFONOMMI IN MOSCA STOP POI NON VENNE UFFICIO ET IMPOSSIBILE RINTRACCIARLO TELEFONICAMENTE STOP CONFERMO CALLIGRAFIA STOP PRENDO MISURE SCOPO SORVEGLIANZA ARTISTA SEGNALATO — Firmato: DIRETTORE FINANZIARIO RIMSKIJ».

«Un’idea intelligentissima!», pensò Varenucha, ma non fece in tempo di pensarci a dovere che nella sua mente già erano passate le parole: «Che scemenza! Non può essere a Jalta!»

Nel frattempo, Rimskij fece quanto segue: raccolse con cura tutti i telegrammi, compresa la copia del suo, in un pacchetto, mise il pacchetto in una busta, la incollò, vi scrisse sopra alcune parole e la consegnò a Varenucha, dicendo:

— Portala subito tu stesso, Ivan Savel’evic. Se la vedano loro.

«Questa sí che è un’idea intelligente!», pensò Varenucha, e ripose il plico nella sua cartella. Poi, per ogni evenienza, fece ancora una volta il numero dell’appartamento di Stepa e stette in ascolto, facendo ammicchi e smorfie con aria allegra e misteriosa. Rimskij allungò il collo.

— Potrei parlare con l’artista Woland? — chiese soavemente Varenucha.

— Il signore è occupato, — rispose il ricevitore con voce tremolante, — chi parla?

— Varenucha, amministratore del Varietà.

— Ivan Savel’evic? — gridò il ricevitore con gioia. — Come sono contento di sentire la sua voce! Come sta?

— Merci, — rispose sorpreso Varenucha. — Con chi sto parlando?

— Con l’aiutante, il suo aiutante e interprete Korov’ev! — strepitava il ricevitore. — Interamente ai suoi ordini, carissimo Ivan Savel’evic! Disponga di me come crede! Dica pure.

— Mi scusi… dica, è in casa Stepan Bogdanovič Lichodeev?

— Ohimè, no! Non c’è! — gridava il ricevitore. — È partito!

— Per dove?

— È andato in macchina a fare una gita fuori città.

— C… come? Una gi… gita?… Quando torna?

— Ha detto che andava a respirare una boccata d’aria fresca e che sarebbe tornato.

— Ah, cosí… — disse sconcertato Varenucha, — merci… Abbia la cortesia di riferire a monsieur Woland che il suo spettacolo avrà luogo oggi nella terza parte.

— Certo. Come no. Senz’altro. Subito. Assolutamente. Riferirò, — ticchettava il ricevitore.

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