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Sul lampadario non c’era nessun gatto, s’intende, nessuno aveva pensato di difendersi sparando, avevano sparato nel vuoto, mentre Korov’ev, che suggestionava i presenti a credere che il gatto ne combinasse delle belle sul lampadario, poteva tranquillamente trovarsi alle spalle di quelli che sparavano, facendo smorfie e godendo della propria immensa, ma criminosamente impiegata facoltà di suggestione. Era stato lui, naturalmente, a incendiare l’appartamento, dopo aver sparso il petrolio.

Neanche da pensarci, naturalmente, che Stepa Lichodeev fosse andato in aeroplano a Jalta (una cosa del genere neppure Korov’ev era in grado di farla) e avesse spedito di lí i telegrammi. Dopo aver perso i sensi nell’appartamento della gioielliera, spaventato dal trucco di Korov’ev, che gli aveva fatto vedere il gatto col fungo marinato infilato sulla forchetta, egli era rimasto là finché Korov’ev, sbeffeggiandolo, non gli aveva messo in testa un cappello di feltro e non lo aveva mandato all’aeroporto di Mosca, dopo aver fatto credere ai rappresentanti della polizia, andati incontro a Stepa, che Stepa era sceso da un aeroplano arrivato da Sebastopoli.

È vero che la polizia di Jalta affermava di aver accolto Stepa scalzo e di aver mandato a Mosca dei telegrammi a proposito di Stepa stesso, ma negli incartamenti non si trovò neppure una copia di quei telegrammi, dal che fu tratta la triste, ma assolutamente incrollabile conclusione che la banda di ipnotizzatori aveva la facoltà di ipnotizzare a distanze enormi, e non soltanto singole persone, ma anche interi gruppi di esse.

In queste condizioni i delinquenti potevano far perdere la testa a gente con il sistema nervoso piú saldo. Altro che quisquilie come il mazzo di carte nella tasca di uno spettatore in platea, o i vestiti femminili scomparsi, o il berretto che miagolava, e cosí via! Cose del genere le sa fare ogni ipnotizzatore di media forza su ogni palcoscenico, tra l’altro anche il trucco piuttosto facile della testa strappata al presentatore. Il gatto parlante era anch’esso una sciocchezzuola. Per presentare al pubblico un gatto simile, basta essere padrone dei primi fondamenti dell’arte ventriloqua, e difficilmente qualcuno dubiterà che l’arte di Korov’ev non andasse ben al di là di questi fondamenti.

Sí, non si trattava affatto né dei mazzi di carte, né delle lettere false nella borsa di Nikanor Ivanovič. Tutte bagattelle, queste! Era stato lui, Korov’ev, a spingere sotto il tram Berlioz incontro a una morte certa. Era stato lui a far impazzire il povero poeta Ivan Bezdomnyj, lui a costringerlo a fantasticare e a vedere in sogni tormentosi l’antica Jerushalajim e l’arido Calvario arso dal sole coi tre appesi ai pali. Era stato lui con la sua banda a far scomparire da Mosca Margherita Nikolaevna e la sua cameriera Nataša.

A proposito: di questa faccenda la squadra investigativa si occupava con particolare attenzione. Si doveva chiarire se queste donne erano state rapite dalla banda di assassini e incendiari o non piuttosto erano fuggite volontariamente con quella criminosa compagnia. Fondandosi sulle assurde e confuse deposizioni di Nikolaj Ivanovič e prendendo in considerazione lo strano e folle biglietto lasciato al marito da Margherita Nikolaevna, biglietto in cui diceva di diventare una strega, tenendo conto del fatto che Nataša era scomparsa, senza prendere i suoi oggetti di vestiario personale, la squadra investigativa era giunta alla conclusione che sia la padrona, sia la cameriera erano state ipnotizzate al pari di molti altri e in questo stato erano state rapite dalla banda. Sorse anche l’idea, probabilmente del tutto giusta, che i delinquenti fossero stati attratti dalla bellezza di entrambe le donne.

Ma quello che era rimasto completamente oscuro per la squadra investigativa, era lo stimolo che aveva spinto la banda a rapire dalla clinica psichiatrica un malato di mente che si denominava il Maestro. Questo non si riuscí a chiarirlo, cosí come non si riuscí a sapere il cognome del malato rapito. In tal modo egli sparí per sempre col morto soprannome di «numero diciotto del primo reparto».

Quasi tutto fu cosí spiegato, e l’inchiesta finí, come in genere tutto finisce.

Passarono degli anni, e la gente cominciò a dimenticare e Woland e Korov’ev e gli altri. Avvennero molti mutamenti nella vita di quelli che erano state vittime di Woland e dei suoi sodali, e per quanto minuscoli e insignificanti siano questi mutamenti, mette conto tuttavia segnalarli.

George Bengal’skij, ad esempio, dopo aver passato tre mesi all’ospedale, si rimise e ne uscí, ma fu costretto a lasciare il lavoro al Varietà e nel periodo di maggior successo, quando il pubblico prendeva d’assalto il teatro: il ricordo della magia nera e dei suoi smascheramenti si dimostrò molto tenace. Bengal’skij lasciò il Varietà perché capiva che fare il presentatore ogni sera davanti a duemila persone, essere inevitabilmente riconosciuto e sottoporsi indubitamente alle beffarde domande sulla condizione migliore — con la testa o senza la testa — era una cosa troppo penosa.

E per di piú il presentatore aveva perso una buona dose della sua allegria, che è tanto necessaria per la sua professione. Gli era rimasta la sgradevole e incresciosa abitudine di cadere, ogni primavera al plenilunio, in uno stato d’inquietudine, di afferrarsi d’improvviso il collo, di guardarsi intorno spaventato e di piangere. Questi attacchi passavano, eppure, quando c’erano, non ci si poteva occupare del solito lavoro, e il presentatore si ritirò dalla sua attività, e si mise a vivere dei suoi risparmi che, secondo il suo modesto calcolo, dovevano bastargli per quindici anni.

Se ne andò e non si incontrò mai piú con Varenucha che si era acquistato una popolarità e un amore generale per la sua cordialità e gentilezza, incredibile persino tra gli amministratori teatrali. Chi voleva biglietti di favore, ad esempio, non lo chiamava altrimenti che padre e benefattore. In qualunque momento si telefonasse, chiunque telefonasse al Varietà, nel ricevitore si sentiva sempre una voce dolce, ma triste: «La ascolto» e alla preghiera di chiamare Varenucha all’apparecchio, quella stessa voce rispondeva in fretta: «Sono ai suoi ordini». E però come soffriva Ivan Savel’evic per quella sua gentilezza!

Stepa Lichodeev non deve piú parlare al telefono del Varietà. Subito dopo esser stato dimesso dalla clinica, dove aveva passato otto giorni, egli fu trasferito a Rostov, e nominato direttore di una grande salumeria. Corre voce che abbia perso del tutto l’abitudine di bere vino di porto e beva soltanto vodka alle gemme di ribes, il che gli ha molto giovato alla salute. Dicono che sia diventato taciturno e che eviti le donne.

L’allontanamento di Stepan Bogdanovič dal Varietà non procurò a Rimskij quella gioia che egli con tanta bramosia aveva agognato nel corso di alcuni anni. Dopo la clinica e Kislovodsk, il direttore finanziario, vecchio cadente, con la testa scossa da un tremito, aveva chiesto di ritirarsi dal Varietà. È interessante il fatto che le dimissioni furono portate al Varietà dalla moglie di Rimskij. Grigorij Danilovič non trovò in sé la forza per stare, persino di giorno, nell’edificio dove aveva visto il vetro incrinato inondato di luce lunare e il lungo braccio che si protendeva verso il paletto inferiore della finestra.

Il direttore finanziario, dopo che si fu licenziato dal Varietà, entrò a far parte del teatro delle marionette nel Zamoskvoreč’e.[27] In quel teatro non gli capitò piú di incontrare per i problemi acustici l’egregio Arkadij Apollonovič Semplejarov. In quattro e quattr’otto questi era stato trasferito a Brjansk e nominato direttore del centro di lavorazione dei funghi. I moscoviti mangiano adesso sanguigni sotto sale e porcini marinati e non finiscono di lodarli e si rallegrano oltremodo di questo trasferimento. Quel che è stato è stato, e si può ben dire che Arkadij Apollonovič non era un’aquila in fatto di acustica, e per quanti sforzi facesse per migliorarla, essa restò cosí come era.

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Rione di Mosca nei pressi del Cremlino.

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