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Cazaril e la sua scorta arrivarono a Valencia al tramonto del giorno successivo. La massa della città si stagliava contro il cielo grigio come il peltro, immersa in una penombra sempre più fitta, venata dal bagliore arancione di una torcia o di una candela, tenui scintille di luce e di vita. Sulla strada secondaria che conduceva a Valenda non avevano trovato stazioni per i corrieri, tutte dislocate sulla strada principale diretta alla sede provinciale baociana, Taryoon. L’ultimo tratto del viaggio era stato particolarmente faticoso per i cavalli, e per Cazaril fu un sollievo percorrerlo a passo lento. Avrebbe voluto fermarsi di schianto, accasciandosi sul bordo della strada senza muoversi per giorni… Entro pochi minuti avrebbe dovuto informare una madre della morte di suo figlio, la peggiore fra tutte le prove di quel viaggio.

Fin troppo presto, arrivarono al portone del castello della Provincara, e le guardie lo riconobbero immediatamente, chiamando a gran voce i servitori. Lo stalliere Demi, prendendo le redini del suo cavallo, fu il primo a chiedergli il motivo della sua presenza lì. E non sarebbe stato l’ultimo. «Reco messaggi per la Provincara e Lady Ista», rispose seccamente Cazaril, chinandosi in avanti sul pomo della sella.

Foix gli si avvicinò e rimase a fissarlo con aria piena di aspettativa, in attesa di aiutarlo a smontare. Passata la gamba destra oltre il dorso del cavallo, Cazaril liberò l’altro piede dalla staffa e si lasciò cadere a terra. Le ginocchia gli cedettero e sarebbe caduto se una mano robusta non lo avesse sorretto per un braccio. Chiedendosi quale prezzo avrebbe pagato per l’andatura sostenuta cui avevano viaggiato, rimase immobile, tremando, ancora per qualche istante. Infine ritrovò l’equilibrio e chiese: «Ser dy Ferrej è qui?»

«Ha accompagnato la Provincara a un banchetto di nozze, in città», rispose Demi. «Non so quando abbiano intenzione di ritornare.»

«Oh», mormorò Cazaril, troppo stanco anche solo per pensare.

La notte precedente, si era sentito così esausto che, in pochi minuti, si era addormentato nella cuccetta della stazione di posta cui l’avevano condotto i suoi compagni. Non si era svegliato neppure durante la consueta crisi notturna scatenata da Dondo. Gli conveniva forse aspettare la Provincara, informarla e lasciare che fosse lei a stabilire cosa dire alla figlia? Dopo una breve riflessione, decise che quell’attesa gli era intollerabile. Era meglio affrontare il problema e farla finita. «In tal caso, vedrò prima Lady Ista. Nel frattempo, bada ai cavalli: hanno bisogno di essere strigliati, abbeverati e nutriti. I miei compagni sono Ferda e Foix dy Gura, gentiluomini di Palliar. Per favore, provvedi a loro… in tutto. Non abbiamo ancora mangiato.» Non ci fu bisogno di aggiungere che non si erano neppure lavati: tutti e tre avevano gli abiti intrisi di sudore e schizzati di fango, nonché le mani e la faccia striate di polvere. Inoltre, nella fioca luce delle torce che rischiaravano il cortile, apparivano decisamente stanchi. Con dita rigide per aver stretto le redini al freddo fin dall’alba, Cazaril cercò di sciogliere i lacci delle sacche da sella, ma Foix si precipitò ad aiutarlo, rimuovendo anche le sacche dalla groppa del cavallo. Con aria piuttosto determinata, Cazaril tornò a impossessarsene, se le ripiegò sul braccio e si voltò. «Accompagnatemi da Ista, per favore», disse, con voce fievole. «Ho per lei alcune lettere da parte della Royesse Iselle.»

Un servitore lo condusse in casa e lungo le scale dell’edificio nuovo, fermandosi di tanto in tanto per permettere a Cazaril, che si sentiva le gambe pesanti come piombo, di raggiungerlo. L’uomo scambiò poi qualche parola sommessa con le dame di compagnia di Ista, e ottenne il permesso di far entrare il visitatore. L’aria delle stanze era profumata da ciotole di petali di fiori secchi e, in un angolo, un focolare rischiarava l’ambiente, riscaldandolo. In quel delicato salotto, Cazaril si sentì d’un tratto enorme, goffo e sporco.

Seduta su una panca rivestita di cuscini, Ista era avvolta in caldi scialli e aveva i capelli castani raccolti in una spessa treccia. Come Sara, anche lei era avviluppata dall’ombra nera della maledizione. A quanto pare, la mia supposizione era esatta, pensò Cazaril.

Nel girarsi verso di lui, Ista sgranò gli occhi e s’irrigidì. Era bastata la semplice presenza di Cazaril per farle capire che era successo qualcosa di molto grave. Lui allora dimenticò di colpo i cento modi diversi che aveva elaborato durante il viaggio per darle gentilmente la ferale notizia. Pensando che un ulteriore indugio sarebbe ormai stato una crudeltà indicibile, Cazaril s’inginocchiò davanti a lei, si schiarì la gola e disse: «Per prima cosa, Iselle sta bene… Aggrappatevi a questo». Tratto un profondo respiro, aggiunse: «Come seconda cosa… Teidez è morto due notti fa, a causa di una ferita che si è infettata».

Le due dame di compagnia che assistevano Ista lanciarono un grido di sgomento e si abbracciarono, ma la Royina Vedova quasi non si mosse, tranne per un lieve sussulto, come se fosse stata colpita da una freccia invisibile. Dopo un momento, sospirò.

«Avete compreso le mie parole, Royina?» chiese Cazaril, esitante.

«Oh, sì», sussurrò lei, incurvando verso l’alto un angolo della bocca in un’espressione che non si poteva definire un sorriso, ma esprimeva piuttosto un’amara ironia. «Quando un colpo atteso da troppo tempo sopraggiunge, è quasi un sollievo. Adesso che l’attesa è finita, posso smettere di avere paura… Riuscite a capirlo?»

Cazaril annuì.

«Come si è procurato questa ferita?» domandò con voce pacata la Royina, dopo un momento di silenzio infranto soltanto dai singhiozzi delle sue dame. «Cacciando? Oppure… in qualche altro modo?»

«Non… proprio cacciando, in un certo senso è stato…» Cazaril si umettò le labbra crepate dal freddo, poi chiese: «Signora, vedete in me qualcosa di strano

«Adesso posso vedere soltanto coi miei occhi. Per il resto, sono cieca da anni. Voi potete vedere?» ribatté Ista.

Cazaril colse all’istante il significato di quella domanda. «Sì.»

«L’avevo capito», annuì Ista. «Coloro che vedono con quegli occhi hanno un aspetto particolare.»

Tremando, una delle dame le si avvicinò. «Mia signora, adesso forse dovreste andare a letto», disse in un tono permeato di falsa tranquillità. «Senza dubbio la vostra signora madre sarà presto di ritorno…» E scoccò da sopra la spalla una significativa occhiata a Cazaril, evidentemente convinta che Ista stesse per scivolare in una delle sue crisi di follia… o, per meglio dire, in quelle che tutti credevano fossero crisi di follia. Ma in realtà, Ista era mai stata pazza?

«Per favore, lasciateci soli», intervenne Cazaril, accoccolandosi sui talloni. «Ho bisogno di parlare in privato con la Royina di questioni della massima urgenza.»

«Mio signore, io…» mormorò la donna, poi sfoggiò un falso sorriso e gli sussurrò all’orecchio: «Non osiamo lasciarla sola in quest’ora di dolore… potrebbe farsi del male».

Alzatosi, Cazaril afferrò entrambe le dame per un braccio, guidandole fuori con gentile ma inesorabile fermezza. «Provvederò io a proteggerla», garantì. «Voi potrete aspettare nella camera dall’altra parte del corridoio. Se avrò bisogno di aiuto, vi chiamerò. D’accordo?» E chiuse la porta, nonostante le proteste di entrambe.

Ista era rimasta immobile. Muoveva soltanto le mani, che stringevano un fazzoletto di fine merletto e che continuavano a piegarlo e a ripiegarlo. Con un grugnito di stanchezza, Cazaril sedette a gambe incrociate ai suoi piedi, e sollevò lo sguardo su quel volto pallidissimo, dagli occhi dilatati. «Ho visto gli spettri dello Zangre», disse.

«Sì.»

«Non solo. Ho anche visto la nube nera che aleggia sulla vostra Casa, la maledizione del Generale Dorato, la sventura degli eredi di Fonsa.»

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