Betriz sospirò, ma le sfuggì anche un accenno di sorriso. «Ecco, se non altro ha smesso di cercare d’impormi le sue attenzioni», disse. «Almeno a questo, lo scherzo è servito.»
«Non posso negare che sia un beneficio, ma… Dondo è un uomo potente, quindi v’imploro — imploro entrambe — di girare alla larga da lui.»
«Qui siamo sotto assedio, vero? Io, Teidez e il nostro seguito», osservò Iselle, scoccandogli una rapida occhiata.
«Confido che la situazione non sia così grave», mormorò Cazaril. «D’ora in avanti, però, cercate di agire con maggiore cautela, d’accordo?»
Dopo aver accompagnato le dame nelle loro camere, Cazaril non tornò ai suoi calcoli e scese invece di nuovo le scale, oltrepassando le stalle e raggiungendo il serraglio, dove trovò Umegat nella voliera, intento a persuadere gli uccelli più piccoli a fare una sorta di bagno secco in una bacinella piena di cenere, come terapia preventiva contro i pidocchi. Pulito e ordinato come sempre, col tabarro protetto da un grembiule, il roknari sollevò lo sguardo su di lui e lo accolse con un sorriso, che però Cazaril non ricambiò.
«Umegat, devo saperlo», esordì, senza preamboli. «Siete stato voi a scegliere il corvo oppure è stato lui a scegliere voi?»
«Ha importanza, mio signore?»
«Per me sì!»
«Perché?»
Cazaril aprì la bocca per ribattere, ma la richiuse senza emettere suono. «È stato un trucco, vero?» chiese quindi, in tono quasi di supplica. «Li avete ingannati, portando il corvo che nutro sulla mia finestra. Gli Dei non sono veramente intervenuti in quella stanza, non è così?»
«Il Bastardo è il più subdolo tra gli Dei, mio signore», ribatté Umegat, inarcando le sopracciglia. «Soltanto perché una cosa è un trucco, non è detto che il Dio non c’entri. Temo che così funzionino le cose…» Rivolse un ciangottio all’uccello che aveva in mano, e che aveva finito di svolazzare nella cenere, lo attirò sul proprio dito con un seme prelevato dalla tasca del grembiule, e lo rimise nella vicina gabbia.
«Era il corvo cui do da mangiare», insistette Cazaril, seguendolo verso la gabbia. «È ovvio che sia volato da me. Gli date da mangiare anche voi, vero?»
«Io nutro tutti i corvi sacri della Torre di Fonsa, come fanno anche i paggi, le dame, i visitatori che giungono al castello e gli Accoliti e i Divini dei Templi cittadini. Il vero miracolo di quei corvi è che non siano diventati tanto grassi da non riuscire più a volare», ribatté lo stalliere. Con un’abile torsione del polso afferrò un altro uccello e lo immerse nella ciotola di cenere.
«Voi siete un roknari, ma non appartenete alla fede quaternariana», disse Cazaril, ritraendosi per evitare le nuvolette di cenere.
«No, mio signore», fu la serena risposta di Umegat. «Sono un Devoto quintariano fin da quand’ero giovane.»
«Vi siete convertito al vostro arrivo a Chalion?»
«No, quand’ero ancora nell’Arcipelago.»
«Come… mai non siete stato impiccato per eresia?»
«Sono riuscito a imbarcarmi su una nave per Brajar prima che mi prendessero», spiegò Umegat, con un sorriso d’un tratto più teso.
In effetti, lo stalliere aveva ancora i pollici… Accigliandosi, Cazaril scrutò con maggiore attenzione i fini lineamenti del suo interlocutore. «Che tipo era vostro padre, nell’Arcipelago?» chiese infine.
«Era di mentalità ristretta, ma molto devoto alla sua fede quadruplice.»
«Non era questo che intendevo.»
«Lo so, mio signore, ma lui è morto ormai da vent’anni, e la cosa non ha più importanza. Sono contento di ciò che sono adesso.»
Cazaril si grattò la barba, riflettendo, mentre Umegat prendeva un altro volatile. «Da quanto tempo siete capo stalliere di questo serraglio?» domandò poi.
«Fin dall’inizio, cioè da circa sei anni. Sono arrivato qui col leopardo e coi primi uccelli, come dono.»
«Da parte di chi?»
«Oh, dell’Arcidivino di Cardegoss e dell’Ordine del Bastardo… Un dono in occasione del compleanno del Roya. Da allora, al serraglio sono stati aggiunti molti splendidi animali.»
«È una collezione davvero insolita», convenne Cazaril.
«Sì, mio signore.»
«Quanto insolita?»
«Molto.»
«Non potete dirmi di più?»
«Vi supplico di non chiedermi altro, mio signore.»
«Perché?»
«Perché non desidero mentirvi.»
«Come mai?» insistette Cazaril. Gli sembrava che tutti gli altri non avessero problemi a mentirgli.
Umegat trasse un profondo respiro e gli sorrise, scrutandolo con attenzione. «Perché, mio signore, è stato il corvo a scegliere me», replicò.
Ricambiato il sorriso con aria alquanto tesa, Cazaril si congedò con un inchino e si affrettò ad andarsene.
11
Tre giorni più tardi, la mattina, Cazaril stava uscendo dalla sua stanza per andare a colazione quando venne accostato da un paggio, che lo afferrò per una manica.
«Mio signore dy Cazaril!» esclamò il giovane, affannato. «Il siniscalco vi prega di raggiungerlo immediatamente nel cortile.»
«Perché? Cos’è successo?» chiese Cazaril, avviandosi insieme col ragazzo.
«Si tratta di Ser dy Sanda. La scorsa notte è stato aggredito da alcuni tagliaborse ed è stato derubato e pugnalato.»
«Quanto sono gravi le sue ferite? Dove si trova?»
«Non è ferito, mio signore, è morto!»
Oh, per gli Dei, no, gemette tra sé Cazaril, mentre si lasciava alle spalle il paggio e scendeva di corsa le scale, uscendo nel cortile principale del castello in tempo per vedere un uomo che indossava il tabarro del conestabile di Cardegoss e un altro individuo, vestito da contadino, scaricare una forma rigida dalla groppa di un mulo e adagiarla sull’acciottolato. Cupo in volto, il siniscalco del castello di Zangre si chinò sul cadavere, mentre un paio di guardie del Roya osservavano la scena tenendosi a qualche passo di distanza, quasi che le ferite da coltello potessero essere contagiose.
«Cos’è successo?» domandò Cazaril.
Notando il suo abbigliamento da cortigiano, il contadino si affrettò a togliersi il cappello di lana in un saluto rispettoso. «L’ho trovato stamattina sulla riva del fiume, signore, quando ho portato il mio bestiame ad abbeverarsi», spiegò. «In quel punto, il fiume fa una curva, e mi capita spesso di trovare cose impigliate nelle rocce. La scorsa settimana, per esempio, c’era una ruota di carro, ed è per questo che controllo sempre. I cadaveri non sono frequenti — sia resa grazie alla Misericordia della Madre — e non ne avevo più visto uno dopo la povera dama che si è annegata, due anni fa…» Scambiò con l’uomo del conestabile un cenno del capo da cui si capiva che entrambi rammentavano quell’episodio, poi concluse: «Questo, però, non sembra essere annegato».
I calzoni di dy Sanda erano ancora fradici, ma i capelli avevano smesso di gocciolare; la tunica era stata rimossa da chi lo aveva trovato ed era ripiegata sul dorso del mulo. Sul torace messo a nudo spiccavano le ferite, che il fiume aveva ripulito dal sangue, scure lacerazioni ben visibili sulla pelle pallida del collo, del ventre e della schiena. Erano oltre una dozzina, inferte con forza e in profondità.
Appoggiandosi all’indietro sui talloni, il siniscalco indicò un pezzetto di corda fradicia che pendeva dalla cintura di dy Sanda. «Dovevano avere fretta», osservò. «Hanno tagliato i cordoni della sua borsa.»
«Non si è trattato soltanto di una rapina», dichiarò Cazaril. «Un paio di queste ferite sarebbero state sufficienti a metterlo fuori combattimento e a porre fine a ogni resistenza da parte sua, quindi non c’era bisogno di… No, volevano essere sicuri che fosse morto.» Aveva usato il plurale e ciò lo indusse a chiedersi se davvero gli aggressori erano più di uno. Non c’era modo di appurarlo, almeno per il momento, ma, considerato che dy Sanda non era certo un avversario facile, lo ritenne più che probabile. «Immagino che gli abbiano preso la spada», aggiunse, dopo un momento. Dy Sanda aveva avuto il tempo di estrarla, oppure il primo colpo lo aveva colto alla sprovvista, provenendo da un uomo che gli camminava accanto e di cui lui si fidava?