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«È troppo presto. Non posso negare che le tue argomentazioni siano valide e che, al momento giusto, vengano prese in considerazione. In effetti, la Volpe aveva avviato indagini diplomatiche per chiedere la tua mano, alcuni anni fa, anche se non ricordo più per quale figlio… Tutto è stato interrotto all’insorgere di quei problemi nell’Ibra meridionale. In ogni caso, nessun impegno è definitivo. Per esempio, la mia povera madre brajariana è stata fidanzata cinque volte prima di sposare infine il Roya Ias. Abbi pazienza e aspetta un momento più conveniente.»

«Credo che questo sia un momento eccellente. Voglio una tua decisione, e il tuo impegno di attenerti a essa, prima che il Cancelliere dy Jironal sia di ritorno.»

«Ah, già, sì… Questo è un altro ostacolo. Non posso prendere una decisione così importante senza prima consultarmi col mio principale consigliere e con gli altri nobili del consiglio», replicò Orico, annuendo.

«L’ultima volta non hai consultato i nobili. Io credo che tu abbia paura di fare una cosa che non incontri l’approvazione del Cancelliere dy Jironal. Si può sapere chi è il vero Roya a Cardegoss… Orico dy Chalion oppure Martou dy Jironal?»

«Io… ecco… rifletterò sulle tue parole, cara sorella», mormorò Orico, agitando le mani grassocce come se volesse cercare di allontanare da sé la giovane.

Per un lungo momento, lei indugiò a fissarlo con un’intensità che lo fece contorcere sul suo seggio, poi accettò la sua risposta con un cenno di assenso. «Sì, pensa alla mia petizione, mio signore», ribatté. «Domani te la rivolgerò di nuovo.»

Con quella promessa — oppure era una minaccia? — fece un’altra riverenza a Orico e a Sara e lasciò la stanza, seguita da Betriz e da Cazaril.

«Domani e… ogni altro giorno successivo?» domandò sottovoce quest’ultimo, mentre Iselle procedeva lungo il corridoio.

«Ogni giorno. Finché Orico non cederà», confermò lei a denti stretti. «Potete contarci, Castillar.»

Più tardi, quel pomeriggio, sotto la gialla luce invernale che filtrava tra le nubi, Cazaril lasciò il castello di Zangre e raggiunse le stalle, stringendosi intorno al corpo l’elegante cappotto ricamato e ritraendo il collo al suo interno, come una tartaruga, per difendersi dal vento freddo e umido. La temperatura si era ormai abbassata a tal punto che la brina rivestiva l’acciottolato e ogni suo respiro creava nuvolette di vapore bianco. Lui provò a sbuffarne qualcuna contro gli spettri che, pallidi fino a essere quasi invisibili sotto la luce del sole, persistevano nell’aleggiargli intorno. Spinta la pesante porta del serraglio quanto bastava per sgusciare all’interno, Cazaril entrò e richiuse immediatamente il battente, indugiando poi per abituare gli occhi alla penombra che regnava all’interno, e starnutendo ripetutamente a causa della polvere profumata prodotta dal fieno.

Posato a terra un secchio, lo stalliere privo di pollici si affrettò a venirgli incontro con un inchino, emettendo inarticolati versi di benvenuto.

«Sono qui per vedere Umegat», gli disse Cazaril.

Inchinandosi ancora, l’ometto gli fece cenno di seguirlo e lo precedette lungo il corridoio. Al loro passaggio, gli splendidi animali si spostarono tutti verso la parte anteriore dei loro stalli, sbuffando, e le volpi del deserto presero addirittura a saltare e a uggiolare.

La camera di pietra in fondo al corridoio risultò essere una stanza per i finimenti convertita in camera di lavoro e di riposo per i servitori che si occupavano del serraglio. Al suo interno, un piccolo fuoco ardeva allegramente in un focolare di pietra per tenere a bada il freddo, e il vago, piacevole odore della legna si mescolava con quello del cuoio, del lucido per i metalli e dei saponi. I cuscini di lana che coprivano le sedie indicategli dallo stalliere erano logori e sbiaditi, il vecchio tavolo da lavoro aveva il piano chiazzato e sfregiato, ma la stanza era pulita e i pannelli di vetro rotondo incastonati nel piombo delle due finestre ai lati del focolare erano lucidati alla perfezione. Emesso qualche verso indistinto, lo stalliere lo lasciò lì e si allontanò.

Pochi minuti più tardi, Umegat entrò nella stanza, asciugandosi le mani su una pezza di stoffa e assestandosi il tabarro. «Benvenuto, mio signore.»

D’un tratto, Cazaril non seppe a quale criterio d’etichetta attenersi: doveva alzarsi in segno di rispetto nei confronti di un superiore oppure poteva rimanere seduto, come si conveniva davanti a un inferiore? Inoltre rifletté che il roknari di corte non contemplava una modalità grammaticale per un segretario che si rivolgeva a un santo. Alla fine, rimase seduto, però, a titolo di compromesso, s’inchinò all’altezza della cintura. «Umegat», rispose.

Il roknari chiuse la porta della stanza, per essere certo che la conversazione si svolgesse in privato, e Cazaril si protese subito in avanti, appoggiando le mani congiunte sulla superficie del tavolo e parlando con la stessa urgenza che un paziente avrebbe avuto nel rivolgersi al suo medico. «Tu vedi gli spettri del castello… Ma li hai mai sentiti parlare?»

«Di norma no. A te è successo?» replicò Umegat, prendendo una sedia e sedendosi accanto a lui.

«Non questi», spiegò Cazaril, percuotendo la presenza spettrale più persistente, che lo aveva seguito all’interno. Ma la presenza sparì solo quando Umegat accennò a colpirla con lo straccio che aveva in mano. «Si tratta dello spettro di Dondo», continuò, riferendo all’altro il fragore interiore che lo aveva tenuto sveglio la notte precedente. «Ho pensato che stesse per uscire. Può farcela, in caso che la presa esercitata dalla Dea venga meno?»

«Sono certo che nessuno spettro può avere la meglio su un Dio», dichiarò Umegat.

«Questa… non è una vera e propria risposta», ribatté Cazaril, pensando che forse Dondo e il demone intendevano sfinirlo sino a ucciderlo. «Puoi almeno suggerirmi un modo per farlo tacere? Ficcare la testa sotto il cuscino non è stato di nessun aiuto.»

«In tutto questo esiste una sorta di simmetria», mormorò Umegat. «Puoi vedere gli spettri esterni, ma non li puoi sentire; tuttavia senti, e non vedi, quello interno… Se in tutto ciò c’è la mano del Bastardo, è possibile che la cosa abbia lo scopo di mantenere l’equilibrio. In ogni caso, sono certo che la tua… preservazione dalla morte non sia stata accidentale e che non verrà annullata per puro caso.»

Cazaril si concesse un momento per assorbire quelle parole, rammentando il commento di Umegat sui doveri quotidiani nonché le strane idee che gli eventi di quel giorno avevano fatto nascere in lui. «Umegat, ho avuto un’idea», disse infine, in tono complice. «Sappiamo che la maledizione ha seguito la linea di discendenza maschile della Casa di Chalion, da Fonsa a Ias e a Orico… Eppure la Royina Sara è avvolta da un’ombra la cui intensità è analoga a quella del marito, sebbene lei non sia progenie dei lombi di Fonsa. Dev’essere stata contagiata dalla maledizione col matrimonio, giusto?»

«Sara era già velata d’ombra quando sono giunto qui per la prima volta, anni fa», replicò Umegat, accigliandosi. «Però suppongo… Sì, dev’essere stato così.»

«E possiamo ipotizzare che la stessa cosa sia successa a Ista?»

«Be’, sì.»

«In tal caso mi chiedo se Iselle sfuggirebbe davvero alla maledizione col matrimonio, pronunciando i voti matrimoniali e lasciandosi alle spalle la famiglia d’origine per entrare a far parte di quella del marito. Oppure la maledizione la seguirebbe, contaminando entrambi?»

«Non lo so», ammise Umegat, sorpreso.

«Ma non ti risulta che sia impossibile, vero? Stavo pensando che questo potrebbe essere un modo per salvare… qualcosa.»

«Può funzionare, ma non lo so per certo: nel caso di Orico non è mai stata una soluzione applicabile.»

«Ho bisogno di saperlo, Umegat, perché la Royesse Iselle sta insistendo con Orico perché apra i negoziati per il suo matrimonio fuori da Chalion.»

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