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Don Paulo evitò il suo sguardo accusatore.

Frate Kornhoer si avvicinò al suo superiore con un sorriso di entusiasmo. — Bene, Padre Abate, fra poco avremo una luce quale nessun uomo vivente ha mai visto.

— Queste parole non sono esenti da una certa vanità, fratello — rispose Paulo.

— Vanità, Domne? È vanità mettere a buon frutto ciò che noi abbiamo imparato?

— Pensavo alla nostra fretta di metterlo a frutto in tempo per fare impressione a un certo studioso che verrà a visitarci. Vediamo questa stregoneria, dunque.

Si avviarono verso la macchina costruita di materiale eterogeneo. All'abate non sembrava affatto utile, a meno che si considerasse utile uno strumento di tortura. Un asse era collegato da pulegge e da cinghie a un tornichetto che arrivava fino alla cintura dell'abate. Quattro ruote erano montate sull'asse, a una distanza di pochi pollici l'una dall'altra. I loro spessi cerchioni di ferro erano segnati da scanalature, e le scanalature sostenevano innumerevoli nidi di filo di rame, preparati nella locale fucina di Sanly Bowitts. Le ruote erano libere di ruotare a mezz'aria, notò Don Paulo, perché i cerchioni non toccavano alcuna superficie. Tuttavia, alcuni blocchi fissi di ferro stavano di fronte ai cerehioni, a guisa di freni, senza però toccarli. Anche quei blocchi erano avvolti da innumerevoli spire di filo… "bobine di campo" come li chiamava Kornhoer.

Don Paulo scosse solennemente il capo.

— Sarà certamente la più grande miglioria, nel campo della fisica, che si sia avuta nell'abbazia da quando venne inventato il torchio da stampa, cento anni or sono — azzardò orgoglioso frate Kornhoer.

— Funzionerà? — chiese Don Paulo.

— Ci scommetterei il lavoro straordinario di un mese, Monsignore. "Stai scommettendo molto di più", pensò il religioso, ma non lo disse.

— Da dove esce la luce? — chiese, studiando di nuovo il bizzarro meccanismo.

Il monaco rise. — Oh, abbiamo una lampada speciale, per questo. Ciò che vedete qui è soltanto la "dinamo". Produce l'essenza elettrica che la lampada brucerà.

Melanconicamente, Don Paulo contemplò lo spazio occupato dalla dinamo.

— Questa essenza — mormorò — non può essere estratta dal grasso di montone, vero?

— No, no… L'essenza elettrica è… bene… Volete che ve lo spieghi?

— È meglio di no. La scienza naturale non è la mia specialità. La lascio a voi, che siete più giovani. — Indietreggiò rapidamente per non essere scotennato da una trave portata da due carpentieri frettolosi. — Ditemi — chiese — se studiando gli scritti dell'età leibowitziana potete imparare a costruire queste cose, perché credete che i nostri predecessori non abbiano ritenuto giusto costruirle?

Il monaco tacque per un momento. — Non è facile spiegarlo — disse alla fine. — In realtà, negli scritti che rimangono, non vi è alcuna informazione specifica sul modo di costruire una dinamo. Si potrebbe dire, piuttosto, che tale informazione è implicita in una intera raccolta di scritti frammentari. Parzialmente implicita. E deve esserne estratta per mezzo della deduzione. Ma per arrivare a questo è necessario disporre di alcune teorie su cui lavorare… informazioni teoriche di cui i nostri predecessori non disponevano.

— E noi?

— Ebbene, sì… ora che vi sono alcuni uomini come… — il suo tono divenne profondamente rispettoso; esitò prima di pronunciare il nome: — …come il Thon Taddeo…

— Era una frase completa? — chiese l'abate, un po' acido.

— Ecco, fino a tempi recenti, pochi filosofi si sono occupati delle nuove teorie della fisica. In realtà, è stato il lavoro di… del Thon Taddeo… — Di nuovo quel tono rispettoso notò Don Paulo — … che ci ha dato gli assiomi necessari. La sua opera sulla Mobilità delle Essenze Elettriche, per esempio, e il suo Teorema della Conservazione…

— Allora dovrebbe essere compiaciuto nel vedere tradotta in realtà la sua opera. Ma non posso chiedere dov'è la lampada? Spero che non sia più grande della dinamo.

— È questa, Domne — disse il monaco, prendendo dalla tavola un piccolo oggetto. Sembrava soltanto una specie di supporto che reggeva un paio di verghe nere e una vite per regolarne la distanza. — Questi sono carboni — spiegò frate Kornhoer. — Gli antichi l'avrebbero chiamata "lampada ad arco". Ve ne erano di altre specie, ma noi non abbiamo il necessario per fabbricarle.

— Sbalorditivo. E da dove viene la luce?

— Da qui. — Il monaco indicò il varco fra i carboni.

— Deve essere una fiamma molto piccola — disse l'abate.

— Oh, ma è splendente! Più splendente, prevedo, di quella di cento candele.

— No!

— Vi sembra impressionante?

— Mi sembra assurdo… — Notando l'espressione improvvisamente offesa di frate Kornhoer, l'abate aggiunse in fretta: — …pensare per quanto tempo ci siamo serviti della cera d'api e del grasso di montone.

— Mi sono chiesto — aggiunse timidamente il monaco — se gli antichi l'usavano sui loro altari, invece delle candele.

— No — disse l'abate. — Decisamente no. Questo posso dirvelo. Vi prego di abbandonare al più presto questa idea, e di non pensarvi più.

— Sì, Padre Abate.

— Ora, dove avete intenzione di appendere questo oggetto?

— Ecco… — Frate Kornhoer si interruppe per guardarsi intorno, con aria speculativa, nel sotterraneo buio. — Non vi avevo pensato. Immagino che dovrebbe andare sopra la scrivania dove lavorerà… — ("Perché fa una pausa ogni volta che deve pronunciare quel nome?", si chiese irritato Don Paulo) — …il Thon Taddeo.

— Faremmo meglio a chiederlo a frate Armbruster — decise l'abate; e poi, notando l'improvviso disagio del monaco: — Che succede? Forse voi e frate Armbruster…

Il viso di Kornhoer si alterò in una smorfia di scusa. — Per la verità, Padre Abate, io non ho mai perduto la calma, con lui, neppure una volta. Oh, sono corse molte parole, fra noi, ma… — E alzò le spalle. — Non vuole spostare nulla. Continua a mormorare contro la stregoneria e cose simili. Non è facile ragionare con lui. I suoi occhi sono quasi ciechi, ormai, per avere letto sotto luci troppo fioche… eppure dice che stiamo lavorando a un'opera del Demonio. Io non so che dire.

Don Paulo si accigliò lievemente mentre attraversavano la stanza, dirigendosi verso l'alcova da cui frate Armbruster osservava corrucciato gli eventi.

— Bene, adesso l'avete spuntata — disse il bibliotecario a Kornhoer, mentre si avvicinavano. — Quando metterete qui un bibliotecario meccanico, fratello?

— Abbiamo trovato alcuni accenni all'esistenza di qualcosa di simile, nei tempi andati — brontolò l'inventore. — Nelle descrizioni della Machina analytica, troverete riferimenti a…

— Basta, basta — si interpose l'abate. Poi, rivolto al bibliotecario: — Il Thon Taddeo avrà bisogno di un posto dove lavorare. Quale suggerite?

Armbruster indicò con il pollice l'alcova riservata alle Scienze Naturali. — Fate che legga lì, alla luce della lanterna, come tutti gli altri.

— Cosa ne direste, invece, di preparargli uno studio, qui, dove c'è più spazio, Padre Abate? — suggerì Kornhoer, in una pronta controproposta. — Oltre a una scrivania gli occorrerà un abbaco, una lavagna e un tavolo da disegno. Potremmo isolarlo con paraventi provvisori.

— Credevo che avesse bisogno dei documenti leibowitziani e degli scritti più antichi — disse sospettoso il bibliotecario.

— Infatti.

— E allora dovrà andare avanti e indietro continuamente se lo mettete in mezzo alla stanza. I volumi rari sono assicurati con catenelle, e le catenelle non sono sufficientemente lunghe.

— Non è un problema — disse l'inventore. — Togliete le catene. Sono una sciocchezza, in ogni caso. I culti scismatici si sono estinti, o sono diventati regionali. Sono cento anni ormai che nessuno ha più sentito parlare dell'Ordine Militare Pancraziano.

Armbruster arrossì, indignato. — Oh, no — insorse. — Le catenelle resteranno.

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