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— Può anche darsi che sia stata soltanto l'immaginazione del frate che stava di guardia — ribatté Don Paulo.

— Ma se si sono accampati a una decina di miglia o giù di lì, lungo la strada…

— Vedremmo brillare il loro fuoco dalla torre. È una notte chiara.

— Eppure, Domne, dopo che sarà sorta la luna, potremmo mandare qualcuno, a cavallo…

— Oh, no. È il modo migliore per farsi uccidere per sbaglio. Se sono veramente loro, probabilmente avranno tenuto il dito sul grilletto durante tutto il viaggio, specialmente la notte. Possiamo aspettare fino all'alba.

Era già mattino avanzato, quando l'atteso gruppo di cavalieri apparve da lontano, a est. Dall'alto delle mura, Don Paulo batté le palpebre e socchiuse gli occhi, guardando al di là del terreno caldo e arido, cercando di mettere a fuoco i suoi occhi miopi, in distanza. La polvere sollevata dagli zoccoli dei cavalli stava disperdendosi, verso nord. Il gruppo di cavalieri si era fermato per discutere.

— Mi pare di vedere venti o trenta persone — si lagnò l'abate, soffregandosi gli occhi. — Sono veramente così tanti?

— Approssimativamente, sì — disse Gault.

— E come potremo provvedere a tutti?

— Non credo che dovremo prenderci cura di quelli che, indossano le pelli di lupo, Monsignor Abate — disse, un po' rigido, il prelato più giovane.

— Pelli di lupo?

— Nomadi, Monsignore.

— Mandate uomini alle mura! Chiudete le porte! Abbassate le saracinesche! Lanciate…

— Aspettate, non sono tutti nomadi, Don Paulo.

— Oh! — Don Paulo si voltò, per guardare ancora.

La discussione era terminata. Alcuni uomini agitavano le braccia in segno di saluto; il gruppo si divise in due. La parte più cospicua ritornò galoppando verso est. Gli altri cavalieri li seguirono per un poco con lo sguardo, poi girarono i cavalli e avanzarono al trotto verso l'abbazia.

— Sono sei o sette… qualcuno è in uniforme — mormorò l'abate mentre si avvicinavano.

— Il thon e la sua scorta, sicuramente.

— Ma in compagnia di nomadi? È bene che non vi abbia permesso di mandare laggiù un uomo a cavallo questa notte. Cosa stavano facendo, in compagnia dei nomadi?

— A quanto pare, sono venuti come guide — disse cupamente Padre Gault.

— È molto gentile, da parte del leone, sdraiarsi accanto all'agnello!

I cavalieri si accostarono alle porte. Don Paulo deglutì a vuoto. — Bene, faremmo meglio ad andare a porgere loro il benvenuto, Padre — sospirò.

Prima che i due ecclesiastici fossero discesi dalle mura, i viaggiatori avevano tirato le redini, davanti al cortile. Un cavaliere si staccò dagli altri, avanzò al trotto, smontò, e presentò le sue credenziali.

— Don Paulo del Pecos, Abbas?

L'abate si inchinò. — Tibi adsum. Benvenuto in nome di San Leibowitz, Thon Taddeo. Benvenuto in nome della sua abbazia, in nome delle quaranta generazioni che hanno aspettato la vostra venuta. Siamo ai vostri ordini. — Quelle parole gli erano dettate dal profondo del cuore; le parole che erano state serbate per tanti anni, in attesa di quel magico momento. Udendo un semplice monosillabo mormorato in risposta, Don Paulo alzò gli occhi.

Per un attimo, il suo sguardo rimase fisso in quello dello studioso. E sentì la sensazione di calore svanire rapidamente. Quegli occhi gelidi… grigi, freddi, indagatori. Scettici, avidi e orgogliosi. Lo studiavano come avrebbero potuto studiare un oggetto curioso, privo di vita.

Paulo aveva pregato con fervore perché quel momento potesse essere un ponte gettato su un abisso di dodici secoli… aveva pregato che, per suo mezzo, l'ultimo scienziato martirizzato di quell'età antica potesse stringere la mano del domani. C'era veramente un abisso: questo era evidente. L'abate intuì, all'improvviso, che lui non apparteneva a questa età, che era stato sospinto su una barena di sabbia nel fiume del Tempo, e che in realtà non vi era alcun ponte.

— Venite — disse gentilmente. — Frate Visclair si occuperà dei vostri cavalli.

Quando ebbe veduto gli ospiti nei loro alloggi e si fu ritirato nell'intimità del suo studio, il sorriso sul volto del santo di legno gli ricordò inopinatamente il sorriso del vecchio Benjamin Eleazar, mentre diceva: «Anche i figli di questo mondo sono consistenti».

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— Ora avvenne come nel tempo di Giobbe — cominciò il Frate Lettore dal leggio del refettorio:

"Quando i figliuoli di Dio vennero a presentarsi al cospetto del Signore, anche Satana era presente tra essi.

"Ed il Signore disse a lui: 'Donde vieni tu, o Satana?'

"E Satana rispondendo disse, come d'antico: 'Io ho percorso la terra, e ho camminato su di essa'.

"Ed il Signore disse a lui: 'Hai tu considerato quel semplice e retto principe, il mio servitore Name, che odia il male ed ama la pace?'

"E Satana rispondendo disse: 'Forse che Name teme Iddio invano? Imperocché non hai Tu benedetto la sua terra con grande ricchezza e non lo hai Tu fatto possente fra le nazioni? Ma distendi la Tua mano e decresci ciò che egli ha, e lascia che il suo nemico sia rafforzato: poi vedrai se non ti bestemmierà sul Tuo viso'.

"Ed il Signore disse a Satana: 'Guarda ciò che possiede, e diminuiscilo. Provvedi tu a questo'.

"E Satana si allontanò dalla presenza di Dio e ritornò nel mondo.

"Ora il principe Name non era il santo Giobbe, perché quando la sua terra fu afflitta da pene e quando il suo popolo fu meno ricco, quando egli vide il suo nemico, diventare più potente, divenne timoroso e cessò di fidare in Dio, pensando fra sé: 'Io devo colpire prima che il nemico mi sopraffaccia senza impugnare la spada'.

— "E così fu in quei giorni" — disse il Frate Lettore:

"che i prìncipi della Terra avevano indurito i loro cuori contro la legge del Signore, e al loro orgoglio non era fine. E ciascheduno di essi pensava entro di sé che era cosa molto migliore essere distrutto che permettere alla volontà di altri prìncipi di prevalere sulla sua. Perché i potenti della Terra contendevano fra loro per il supremo potere sopra ogni cosa: per inganno, violenza e tradimento essi cercavano di dominare, e temevano grandemente la guerra e ne tremavano; imperocché il Signore Iddio aveva permesso che gli uomini sapienti di quei tempi imparassero i modi per cui il mondo medesimo poteva essere distrutto, e nelle loro mani era affidata la spada dell'Arcangelo con la quale Lucifero era stato abbattuto, e per cui gli uomini e i prìncipi potessero temere Iddio ed umiliarsi davanti all'Onnipotente. Ma essi non si erano umiliati.

"E Satana parlò a un principe, e disse: 'Non temere di usare la spada, perché gli uomini sapienti ti hanno ingannato dicendoti che il mondo sarebbe distrutto. Non ascoltare il consiglio dei deboli, imperocché essi grandemente ti temono, e servono ai tuoi nemici fermando la tua mano contro di quelli. Colpisci, e sappi che tu sarai il sovrano di tutto'".

"E il prìncipe ascoltò la parola di Satana, e chiamò a sé tutti gli uomini sapienti di quel reame e comandò loro di dargli consiglio dei modi in cui il nemico poteva essere distrutto senza attirare la collera sopra il suo regno. Ma molti degli uomini sapienti dissero: 'Signore, questo non è possibile, imperocché anche i tuoi nemici possiedono la spada che noi ti abbiamo data, e la terribilità di essa è come la fiamma dell'Inferno, e come il furore della stella-sole, alla quale un giorno fu accesa'.

'"E allora tu me ne foggerai un'altra che sia ancora sette volte più ardente dell'Inferno stesso', comandò il principe, la cui arroganza era giunta a superare quella di Faraone.

"E molti degli uomini sapienti dissero: 'No, Signore, non chiedere a noi tale cosa: imperocché persino il fumo di un tale fuoco, se noi dovessimo accenderlo per te, sarebbe la causa perché molti periscano'.

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