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La consapevolezza che lo schema dei colori di una blueprint era una caratteristica incidentale di quegli antichi disegni aggiunse nuovo impulso al suo piano. Una copia glorificata del disegno di Leibowitz poteva essere realizzata senza incorporarvi la caratteristica accidentale. Invertendo lo schema del colore, nessuno avrebbe riconosciuto il disegno a prima vista. Certe altre caratteristiche potevano essere ovviamente modificate. Non osò cambiare nulla di ciò che non comprendeva, ma senza dubbio le tavole delle parti e le informazioni in stampatello potevano essere sparse simmetricamente tutto attorno al diagramma su rotoli e scudi. Poiché il significato del diagramma in sé era oscuro, non osò alterarne minimamente la forma o la disposizione; ma poiché la disposizione dei colori non era importante, poteva farne una cosa bellissima. Pensò a inserti d'oro per alcuni segni, ma altri sgorbi incomprensibili erano troppo complicati per la lavorazione in oro, e una chiarezza d'oro a forme di cicca sarebbe stata una ostentazione. I punti dovevano essere neri, ma questo significava che le linee dovevano essere più nere ancora, per fare spiccare i punti. Mentre il disegno asimmetrico doveva rimanere com'era, non riusciva a capire perché il suo significato dovesse risultarne alterato se l'avesse usato come sostegno per una vite rampicante, i cui rami (che avrebbero attentamente evitato i punti) potevano essere disegnati in modo da dare un'impressione di simmetria o a rendere naturale l'asimmetria. Quando frate Horner illuminava una M maiuscola, trasformandola in una meravigliosa giungla di foglie, bacche, rami e forse addirittura in un serpente, purnondimeno rimaneva leggibile come una M. Frate Francis non vedeva una ragione per supporre che lo stesso non potesse applicarsi al diagramma.

La forma generale, soprattutto, con un bordo a svolazzi, poteva diventare quella di uno scudo, invece di rimanere lo spoglio rettangolo che nell'originale racchiudeva il disegno. Fece dozzine di schizzi preliminari. In cima alla pergamena vi sarebbe stata una immagine della Trinità, e in fondo… le armi dell'Ordine Albertiano con l'immagine del Beato.

Ma non c'era alcuna effige fedele del Beato, per quanto ne sapeva Francis. V'erano parecchie immagini di fantasia, ma nessuna risaliva all'epoca della Semplificazione. Non v'era ancora neppure una rappresentazione convenzionale, sebbene la tradizione affermasse che Leibowitz era stato alto e un po' curvo. Ma forse, quando il rifugio fosse stato riaperto…

Il lavoro preliminare di frate Francis fu interrotto un pomeriggio dalla improvvisa certezza che la presenza che incombeva dietro di lui e che gettava un'ombra sul suo tavolo da copista era quella di… quella di… "No! Ti prego! Beate Leibowitz, audi me! Misericordia, o Signore! Fai che sia chiunque ma non…".

— Bene, cosa abbiamo qui? — rombò l'abate, guardando i disegni.

— Un disegno, Monsignor Abate.

— Me ne sono accorto. Ma che cos'è?

— La blueprint di Leibowitz.

— Quella che hai trovato tu? Come? Non sembra più la stessa. Perché quei cambiamenti?

— Dovrà essere…

— Parla più forte!

— Una copia alluminata — strillò involontariamente frate Francis.

— Oh.

L'Abate Arkos scrollò le spalle e si allontanò.

Frate Horner, pochi secondi più tardi, mentre passava accanto allo scrittoio dell'apprendista fu sorpreso di vedere che Francis era svenuto.

8

Con grande sbalordimento di frate Francis, l'Abate Arkos non aveva più fatto obiezioni contro l'interesse del monaco verso le reliquie. Poiché i Domenicani avevano accettato di esaminare la faccenda, l'abate si era tranquillizzato; e poiché la causa per la canonizzazione aveva fatto qualche progresso a Nuova Roma, qualche volta sembrava dimenticare completamente che qualcosa di speciale era accaduto durante la vigilia vocazionale di Francis Gerard, AOL, già dello Utah, attualmente adibito alla copisteria. L'incidente era ormai vecchio di undici anni. Gli assurdi mormorii dei novizi sull'identità del pellegrino si erano spenti da molto tempo. Il più giovane dei nuovi arrivati non aveva mai sentito parlare della faccenda.

La faccenda era costata a frate Francis sette vigilie quaresimali nel deserto in mezzo ai lupi, in ogni caso, e quindi non osava mai considerare sicuro quell'argomento. Ogni volta che ne parlava, la notte seguente sognava i lupi e Arkos; nel sogno, Arkos continuava a gettare della carne ai lupi, e quella carne era Francis.

Tuttavia, il monaco aveva scoperto che poteva continuare il suo progetto senza essere molestato, tranne che da frate Jeris, il quale continuava a punzecchiarlo. Francis cominciò la vera e propria alluminazione della cartapecora. Gli svolazzi intricati e la tremenda delicatezza dell'inserzione delle foglie d'oro ne avrebbero fatto, naturalmente, un lavoro che avrebbe richiesto molti anni, tenendo conto della limitatezza del suo tempo libero: ma in un buio mare di secoli, in cui nulla sembrava scorrere, un vita intera era soltanto una breve marea, anche per l'uomo che la viveva. C'era il tedio dei giorni che si ripetevano e delle stagioni che si ripetevano: poi c'erano sofferenze e dolori, finalmente l'Estrema Unzione, e un attimo di tenebre alla fine… o piuttosto al principio. Perché allora la piccola anima tremante che aveva sopportato il tedio, bene o male, si sarebbe trovata in un luogo di luce, assorta nel bagliore ardente di occhi infinitamente compassionevoli, mentre si presentava davanti al Giusto. E poi il Re avrebbe detto "Vieni", o il Re avrebbe detto "Vai" e il tedio di anni interi era esistito solo per quel momento. Sarebbe stato difficile credere diversamente, in un'epoca come quella in cui viveva Francis.

Frate Sarl finì la quinta pagina del suo restauro matematico, crollò sulla scrivania, e morì poche ore dopo. Non importava. Le sue note erano intatte. Fra un secolo o due, sarebbe venuto qualcuno che le avrebbe giudicate interessanti, e forse avrebbe completato il suo lavoro. Nel frattempo, le preghiere salivano al cielo per l'anima di Sarl.

Poi c'era frate Fingo e la sua scultura in legno. Un anno o due prima era stato rimandato nella carpenteria, e aveva ottenuto il permesso di scolpire e di levigare, di tanto in tanto, la sua immagine semifinita del Martire. Come Francis, Fingo poteva dedicare solo un'ora ogni tanto al compito che si era scelto; la scultura progrediva con un velocità che era quasi impercettibile, a meno che non la si guardasse soltanto a intervalli di parecchi mesi. Francis la vedeva troppo di frequente per notare i progressi. Scoprì di essersi lasciato affascinare dalla esuberanza di Fingo, anche quando comprendeva che Fingo aveva adottato quelle maniere affabili per compensare la propria bruttezza, e gli piaceva trascorrere i minuti di ozio — quando gli capitava di averne — osservando Fingo al lavoro.

Il laboratorio di carpenteria era saturo dell'odore del pino, del cedro, della segatura, del sudore umano. Non era facile procurarsi il legno, all'abbazia. Salvo gli alberi di fico e un paio di pioppi vicini al pozzo, la regione era priva d'alberi. Occorreva un viaggio di tre giorni per raggiungere la più vicina rivendita di arbusti atrofici che passavano per legname, e spesso i monaci che andavano a procurare il legno si assentavano dall'abbazia per un settimana, prima di ritornare con qualche asinelio carico di rami che servivano a fare pioli, raggi per ruote o al massimo una gamba di sedia. Qualche volta trascinavano dietro di sé un tronco o due per sostituire una trave rotta. Ma con un rifornimento di legname così scarso, i carpentieri erano necessariamente anche scultori e incisori in legno.

Qualche volta, mentre osservava Fingo al lavoro, Francis sedeva su una panca in un angolo del laboratorio e disegnava, cercando di immaginare i particolari della scultura che erano ancora soltanto rozzamente incisi nel legno. C'erano i lineamenti del viso, vaghi e ancora mascherati da schegge e da segni dello scalpello. Con i suoi disegni, frate Francis cercava di anticipare quei lineamenti prima che emergessero dalla grana del legno. Fingo lanciava occhiate ai suoi disegni e rideva. Ma, via via che il lavoro progrediva, Francis non poteva respingere l'impressione che il viso della scultura sorridesse di un sorriso familiare. Schizzò anche quello, e l'impressione di familiarità aumentò. Eppure, non riusciva a individuare quel viso, o a ricordare chi gli avesse sorriso in quel modo ironico.

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