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Teneva il capo chino sotto il cappuccio, mentre proseguiva lentamente il suo cammino.

Per lo meno, aveva la reliquia originale. Per lo meno.

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L'ora era giunta.

Frate Francis, nel suo semplice abito da monaco, non si era mai sentito meno importante che in quel momento, mentre si inginocchiava nella maestosa basilica, prima che iniziasse la cerimonia. I movimenti solenni, i vividi vortici di colore, i suoni che accompagnavano i cerimoniosi preparativi della cerimonia sembravano già liturgici, in ispirito, e rendevano difficile pensare che per il momento non stava accadendo ancora qualcosa di importante. Vescovi, monsignori, cardinali, preti e funzionari laici in abiti eleganti e antiquati andavano qua e là nella grande chiesa, ma il loro andirivieni era un aggraziato movimento a orologeria che non si fermava, non incespicava, non cambiava mai direzione per dirigersi altrove. Un sampetrius entrò nella basilica: era così grandioso che Francis, dapprima, scambiò l'operaio della cattedrale per un prelato. Il sampetrius reggeva uno sgabello poggiapiedi. Lo portava con tale distratta pomposità che il monaco, se non fosse già stato inginocchiato, si sarebbe genuflesso mentre l'oggetto gli passava davanti. Il sampetrius posò un ginocchio al suolo, davanti all'altare, poi si avviò verso il trono papale dove mise lo sgabello al posto di un altro, che sembrava avesse una gamba allentata; poi si allontanò, facendo lo stesso percorso per cui era venuto. Frate Francis si meravigliò della studiata eleganza di movimenti che accompagnavano persino i gesti più insignificanti. Nessuno aveva fretta. Nessuno si muoveva a casaccio. Non si compiva alcun movimento che non contribuisse quietamente alla dignità e alla bellezza sopraffacente di questo luogo antico, come vi contribuivano le statue immote e i dipinti. Persino il fruscio dei respiri sembrava echeggiare debolmente nelle absidi lontane.

Terribilis est locus iste: hic domus Dei est, et porta coeli: questo è un luogo terribile, la Casa di Dio e la Porta del Cielo!

Alcune delle statue erano vive, notò Francis dopo qualche tempo. Una armatura stava contro una parete, a sinistra, a pochi metri da lui. Il suo pugno serrato in un guanto di maglia di ferro reggeva l'impugnatura di una splendente alabarda. Neppure la piuma sull'elmo si era agitata, durante il tempo che frate Francis aveva trascorso lì, in ginocchio. Una dozzina di armature identiche era piazzata, a intervalli, lungo le pareti. Soltanto dopo aver visto una mosca cavallina che strisciava attraverso la visiera della "statua" alla sua sinistra, cominciò a sospettare che l'armatura contenesse un occupante. Il suo sguardo non riusciva a distinguere alcun movimento, ma l'armatura emise alcuni cigolii metallici, mentre ospitava la mosca. Quelle, dunque, dovevano essere le guardie pontificie, così favolose per le loro cavalieresche battaglie; il piccolo esercito privato del Vicario di Cristo.

Un capitano delle guardie stava ispezionando maestosamente i suoi uomini. Per la prima volta, la statua si mosse. Alsò la visiera in atto di saluto. Il capitano si fermò, pensieroso, poi si servì del fazzoletto per togliere la mosca dalla fronte di quel viso inespressivo chiuso nell'elmo, prima di passare oltre. La statua riabbassò la visiera e ritornò immobile.

Il maestoso scenario della basilica fu brevemente guastato dall'ingresso delle folle di pellegrini. Quei gruppi erano bene organizzati e guidati con efficienza, ma era chiaro che non conoscevano la basilica. Quasi tutti parevano dirigersi in punta di piedi verso i rispettivi posti, badando a non fare rumore e a muoversi il meno possibile, a differenza dei sampetrii e del clero di Nuova Roma che rendevano eloquente ogni suono e ogni gesto. Qua e là, tra i pellegrini, qualcuno tossiva o incespicava.

Improvvisamente la basilica assunse un aspetto guerresco, quando la guardia venne rafforzata. Un nuovo drappello di guardie in giachi di maglia entrò nel santuario; gli uomini posarono al suolo un ginocchio, inclinarono le alabarde, salutando l'altare prima di prendere posto. Due di essi si misero a fianco del trono papale. Un terzo cadde in ginocchio alla destra del trono; e rimase lì, sorreggendo la Spada di Pietro sulle palme levate. Il quadro ritornò immobile, ad eccezione di qualche guizzo delle fiamme delle candele accese sull'altare. Sul silenzio profondo esplose improvvisamente uno squillo di trombe.

L'intensità del suono crebbe fino a che il pulsante Ta-ra Ta-ra Ta-ra batté sul volto dei presenti e diventò doloroso alle orecchie. La voce delle trombe non era musicale, ma annunciatoria. Le prime note cominciarono a metà della scala, poi salirono lentamente di intensità, di tono e di imperiosità, fino a che il monaco si sentì accapponare la pelle del cranio, fino a che sembrò che non vi fosse altro, nella basilica, a eccezione dell'esplosione delle trombe.

Poi, un silenzio mortale… seguito dal grido di un tenore.

PRIMO CANTORE:

Appropinquat agnis pastor et ovibus pascendis.

SECONDO CANTORE:

Genua nunc flectantur omnia.

PRIMO CANTORE:

Jussit olirti Jesus Petrum

pascere gregem Domini.

SECONDO CANTORE:

Ecce Petrus Pontifex Maximus.

PRIMO CANTORE:

Gaudeat igitur populus Christi,

et gratias agat Domino.

SECONDO CANTORE:

Nam docebimur a Spiritu Sancto.

CORO:

Alleluia, alleluia…

La folla si levò e poi si inginocchiò, in una lenta ondata che seguiva il movimento della sedia gestatoria su cui sedeva un fragile vecchio vestito di bianco, che impartiva le sue benedizioni alla folla mentre la processione dorata, nera, purpurea e rossa lo portava lentamente verso il trono. Il respiro continuava a mozzarsi nella gola del piccolo monaco venuto da una lontana abbazia nel deserto lontano. Era impossibile vedere tutto ciò che avveniva, tanto era soverchiante l'ondata della musica e del movimento, che annegava i sensi e sospingeva la mente verso ciò che stava accadendo.

La cerimonia fu breve. La sua intensità sarebbe diventata insopportabile, se fosse durata più a lungo. Un monsignore — Manfredo Aguerra, l'avvocato del Santo, notò frate Francis — si avvicinò al trono e si inginocchiò. Dopo un breve silenzio, levò la sua supplica in una calma cantilena. — Sancte Pater, a Sapientia summa petimus ut ille Beatus Leibowìtz, cuius miraculis, mirati sunt multi…

L'invocazione chiedeva a Leone di illuminare il popolo dei fedeli con una definizione solenne, relativa alla pia credenza che il Beato Leibowitz fosse in verità un santo, degno della dulia della Chiesa come della venerazione dei fedeli.

— Gratissima nobis causa, fili - cantò in risposta la voce del vecchio vestito di bianco, il quale spiegò che era suo ardente desiderio annunciare con proclamazione solenne che il Martire benedetto era fra i Santi, ma anche che solamente per guida divina, sub ducatu Sancti Spiritus, poteva esaudire la richiesta di Aguerra. E chiese a tutti i suoi fedeli di pregare per impetrare tale guida.

Di nuovo il tuono del coro riempì la basilica con le Litanie dei Santi:

— Padre Celeste, Dio, abbi misericordia di noi. Figlio, Salvatore del Mondo, Dio, abbi misericordia di noi. Spirito Santissimo, Dio, abbi misericordia di noi. O Santissima Trinità, Dio Uno e Trino, miserere nobis! Santa Maria, prega per noi. Sancta Dei genitrix, ora pro nobis. Sancta Virgo virginum, ora pro nobis…

Il tuono della litania continuò. Francis levò lo sguardo verso una immagine del Beato Leibowitz, appena scoperta. L'affresco era di proporzioni gigantesche. Rappresentava il processo del Beato davanti alla folla, ma il suo volto non sorrideva ironicamente come sorrideva nella scultura di Fingo. Tuttavia era maestoso, pensò Francis, e degno del resto della Basilica.

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