Литмир - Электронная Библиотека

«Sono più vicino alla sua ipotesi di quanto lei pensa,» rispose Potter. «Stiamo lottando contro… l’instabilità. Abbiamo sconvolto gli schemi dell’ereditarietà con i nostri falsi isomeri, la somministrazione di enzimi e i raggi a mesoni. Abbiamo indebolito la stabilità chimica delle molecole del plasma germinale. Lei è un dottore. Pensi alle dosi di enzimi che dobbiamo prendere per rimanere in vita, a quanto profondamente siamo stati modificati. Ma non è sempre stato così. E qualsiasi cosa abbia prodotto la stabilità originaria, essa è ancora attiva e lotta. Ecco, è questo ciò che io penso.»

CAPITOLO TERZO

Le infermiere addette al laboratorio posizionarono la vasca sotto la console degli enzimi, prepararono i tubi e l’analizzatore collegato al computer. Lavoravano in silenzio, con efficienza, mentre Potter e Svengaard esaminavano i quadranti. L’infermiera addetta al computer sistemò i nastri e controllò l’apparecchio, che emise una breve serie di ronzii e ticchettii.

Potter si sentiva invaso dall’ansia che l’assaliva prima di ogni intervento. Sapeva che ad essa sarebbe subentrata la nervosa sicurezza dell’azione, ma per il momento era pronto a scattare per un nonnulla. Diede un’occhiata agli indicatori della vasca. Il ciclo di Krebs si manteneva a 86,9: più di sessanta punti al di sopra della cifra che avrebbe indicato la morte dell’embrione. L’infermiera addetta alla vasca si avvicinò, controllò la sua maschera a respiratore. Potter provò il microfono. «Un bel cane arrabbiato… aveva trovato un grosso embrione malato.»

Udì distintamente il risolino dell’infermiera addetta al computer, le lanciò un’occhiata, ma la donna gli volgeva le spalle e aveva il volto nascosto dal cappuccio e dalla maschera.

«Il microfono funziona, Dottore,» lo informò l’infermiera addetta alla vasca.

Potter non riusciva a vedere le sue labbra, ma le guance, mentre parlava, si erano increspate.

Svengaard fletté le dita coperte dai guanti, respirò profondamente. Nell’aria era percepibile un lieve odore di ammoniaca. Si chiese perché mai Potter si prendesse sempre la briga di scherzare con le infermiere. In un certo senso, aveva l’impressione che, così facendo, sminuisse la sua posizione di bioingegnere.

Potter si avvicinò alla vasca. Mentre camminava, il suo camice sterile emise un fruscio familiare. Sollevò lo sguardo verso lo schermo applicato sulla parete, che mostrava più o meno cosa vedeva il chirurgo e che inviava le immagini alla sala in cui erano ospitati i Durant. Lo schermo gli mostrò l’immagine di se stesso, quando Potter rivolse verso di esso la lente applicata alla fronte.

Al diavolo i genitori, pensò. Mi fanno sentire colpevole… tutti quanti.

Concentrò nuovamente la propria attenzione sulla vasca, che adesso era piena di strumenti. Il gorgoglio della pompa lo irritò.

Svengaard si avvicinò all’altro lato della vasca, in attesa. La maschera gli copriva la metà inferiore del volto, ma gli occhi conservavano un’espressione tranquilla. L’uomo emanava fiducia, sicurezza.

Ma cosa prova veramente? si chiese Potter. Poi ricordò a se stesso che in un’emergenza non c’era un assistente migliore di Svengaard.

«Può iniziare ad aumentare il flusso di acido piruvico,» gli disse.

Svengaard annuì, premette il pulsante dell’apparecchio dispensatore.

L’infermiera addetta al computer iniziò a far girare le bobine.

Osservarono i quadranti mentre il ciclo di Krebs iniziava ad aumentare 87,0… 87,3… 87,8… 88,5… 89,4… 90,5… 91,9…

Ora, pensò Potter, è iniziato il processo irreversibile di crescita. Solo la morte potrà interromperlo. «Mi avverta quando il ciclo di Krebs raggiunge i centodieci,» disse.

Mise in posizione il microscopio e i micromanipolatori e li assicurò ai supporti. Vedrò anch’io quel che ha visto Sven? si chiese. Ma sapeva che era improbabile. Il fulmine proveniente dall’esterno non colpiva mai due volte nello stesso punto. Colpiva. Compiva ciò che nessuna mano umana avrebbe potuto fare. Spariva.

Ma dove?

Le lacune inter-ribosomali vennero messe a fuoco. Le osservò, aumentò l’ingrandimento e individuò le spirali del DNA. Sì — la situazione era quella descritta da Svengaard. L’embrione dei Durant era uno di quelli che potevano avere accesso al mondo super-umano della Centrale… se l’intervento fosse riuscito.

Stranamente, quella conferma scosse Potter. Rivolse la sua attenzione alle strutture del mitocondrio, notando le tracce, chiarissime, dell’intrusione. Corrispondeva perfettamente alla descrizione di Sven. Le spirali alfa avevano iniziato a rafforzarsi, ri velando le tipiche striature dei mutamenti intervenuti nella quantità di aneurina. Quell’embrione avrebbe resistito al chirurgo. L’intervento sarebbe stato tra i più difficili.

Potter si raddrizzò.

«Allora?» chiese Svengaard.

«È proprio come mi aveva detto,» rispose Potter. «Un lavoro molto semplice.» Quella frase fu pronunciata a beneficio dei genitori che li stavano osservando.

Poi si chiese cosa stesse scoprendo sui Durant la Sicurezza. Forse erano carichi di sonde e sensori mascherati da oggetti di uso comune? Era possibile. Ma correvano voci su nuove tecniche usate dai membri dell’Associazione dei Genitori Clandestini… e sui Cyborg, che stavano emergendo dalla fitta oscurità in cui avevano agito per secoli — ammesso che trattasse davvero di Cyborg. Potter non era troppo convinto.

Svengaard si rivolse all’infermiera addetta al computer, «Inizi a diminuire la somministrazione di acido piruvico.»

«Fatto,» annunciò la donna.

Potter concentrò la propria attenzione sulla console che ospitava le sostanze di importanza prioritaria: per prime le piramidine, gli acidi nucleici e le proteine, poi aneurina, riboflavina, piridossina, acido pantotenico, acido folico, colina, inositol, sulfidril…

Si schiarì la gola, mentre formulava un piano d’azione per superare le difese di cui disponeva la morula. «Tenterò di trovare una cellula pilota mascherando la cisteina in un singolo punto,» annunciò. «Stia pronto col sulfidril e prepari un nastro intermedio per la sintesi proteica.»

«Pronti,» annunciò Svengaard. Rivolse un cenno del capo all’infermiera addetta al computer, che inserì il nastro con gesti fluidi, sicuri.

«Ciclo di Krebs?» chiese Potter.

«Sta per arrivare a centodieci,» disse Svengaard.

Silenzio.

«Centodieci,» avvertì Svengaard.

Potter si piegò di nuovo sul microscopio. «Fate partire il nastro,» ordinò. «Due minimi di sulfidril.»

Aumentò lentamente l’ingrandimento, scelse una cellula per effettuare il mascheramento. Dopo che la visione confusa provocata dall’intrusione del microscopio si fu schiarita, osservò le cellule circostanti per assicurarsi che la mitosi procedesse secondo la tangente fissata da lui. Il processo era lento… lento. Aveva appena iniziato, e già, attraverso i guanti, si sentiva le mani madide di sudore.

«Pronti con il trifosfato di adenosina,» disse.

Svengaard inserì il tubo del dispensatore nei micromanipolatori, annuì in direzione dell’infermiera addetta alla vasca. Stavano già facendo ricorso all’ATP. L’intervento non sarebbe stato dei più facili.

«Cominciare con un minimo di ATP,» comunicò a Svengaard.

Quest’ultimo premette un pulsante del dispensatore. Il fruscio del nastro del computer parve aumentare d’intensità.

Potter sollevò momentaneamente la testa dal microscopio, la scosse. «Questa cellula non va bene,» annunciò. «Proveremo con un’altra. Stessa procedura.» Si chinò di nuovo sul microscopio, mosse i micromanipolatori, aumentando l’amplificazione di una tacca alla volta. Penetrò lentamente nella massa cellulare. Delicatamente… delicatamente… Anche la semplice presenza del microscopio poteva provocare danni irreparibili.

7
{"b":"121564","o":1}