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CAPITOLO QUINDICESIMO

Non appena terminò l’ultima sopraelevata, il veicolo si allontanò dal tunnel che correva sotto la montagna e iniziò a percorrere l’ampia pista di Lester che saliva, attraverso vecchie gallerie e un altopiano spazzato dal vento, fino alla riserva naturale e ai luoghi di villeggiatura riservati alle coppie in permesso di procreazione. Lì non c’erano luci artificiali, solo il bagliore della luna e gli accecanti raggi dei fari del veicolo.

Ogni tanto incrociavano qualche omnibus che scendeva, pieno di coppie melanconiche e silenziose — la loro vacanza era ormai terminata — che tornavano alla megalopoli. Anche se qualcuno tra loro avesse notato l’hovercraft, l’avrebbe senza dubbio scambiato per un veicolo incaricato dei rifornimenti.

In una curva al di sotto dello Homish Resort Complex, l’autista-Cyborg modificò l’assetto dell’hovercraft. Le turbine furono spinte alla massima velocità e il loro rombo divenne stridulo ed assordante. Iniziarono di nuovo i sobbalzi. Il veicolo aveva abbandonato il fondo stradale.

All’interno della stretta scatola in cui erano nascosti, Harvey si resse alla panca con una mano e con l’altra afferrò Lizbeth per impedirle di cadere, mentre l’hovercraft sussultava e sobbalzava seguendo il percorso di una linea ferrata fuori uso da tempo immemorabile, sfondava una barriera di arbusti e cominciava a percorrere uno stretto sentiero creato dagli animali, attraversando cespugli di rododendri.

«Cosa succede?» gemé Lizbeth.

La voce dell’autista rispose dal comunicatore, «Abbiamo lasciato la strada. Non avete nulla da temere.»

Nulla da temere, pensò Harvey. Quell’idea gli parve tanto ridicola che quasi ridacchiò, prima di rendersi conto che era sull’orlo di un attacco isterico.

L’autista aveva spento tutte le luci esterne del veicolo, e ora per guidare il veicolo si basava soltanto sulla luna e sulla sua vista ad infrarossi.

La sua visione potenziata gli faceva apparire il sentiero come la lucente scia lasciata da una lumaca attraverso la boscaglia. Il veicolo seguì quella pista per circa due chilometri, lasciandosi dietro una scia di polvere e foglie, fino al punto in cui il sentiero incrociava una strada, usata dai veicoli della forestale, il cui fondo era abbastanza largo e agevole. Qui girò a destra, sibilando come un enorme mostro preistorico, risalì faticosamente lungo il fianco di una collina, ne ridiscese rombando l’altro versante, per poi raggiungere la cima della collina seguente, su cui si fermò.

Le turbine si spensero con un gemito e il veicolo si adagiò al suolo. L’autista uscì dalla cabina di guida, una figura massiccia e tarchiata e con braccia artificiali adattissime al compito che l’attendeva. Strappò via uno dei pannelli laterali e cominciò a gettare il carico in un profondo burrone invaso da piante di cicuta.

All’interno del loro nascondiglio, Igan balzò in piedi, avvicinò la bocca al comunicatore e sibilò, «Dove siamo?»

Silenzio.

«È una domanda stupida,» commentò Harvey. «Come fa a sapere perché si è fermato?»

Igan ignorò l’insulto. Dopo tutto, chi lo aveva pronunciato era soltanto un rozzo appartenente alle classi inferiori. «Sta spostando il carico,» disse Igan. Si sporse verso Harvey e batté la mano contro una parete del nascondiglio. «Cosa sta succedendo lì fuori?»

«Oh, si sieda,» esclamò Harvey. Poggiò una mano sul petto di Igan e spinse. Il medico barcollò all’indietro, finendo sulla panca sul lato opposto.

Igan fece per scagliarsi contro Harvey, il volto scuro per la rabbia, gli occhi sfavillanti, ma Boumour lo trattenne e disse con voce tonante, «Calma, amico Igan.»

Igan si rimise a sedere. Lentamente il suo volto assunse un’espressione paziente. «È strano,» rifletté, «come le emozioni si impongano nonostante…»

«Passerà,» fece Boumour.

Harvey cercò la mano di Lizbeth, le segnalò, «Il petto di Igan — è convesso e duro come plasmeld. L’ho sentito attraverso la giacca.»

«Pensi che sia un Cyborg?»

«Respira in modo normale.»

«E prova ancora emozioni. In lui leggo della paura.»

«Sì… ma…»

«Staremo attenti.»

Boumour disse, «Durant, lei dovrebbe nutrire maggiore fiducia nei nostri confronti. Il Dottor Igan ha dedotto che l’autista non starebbe scaricando il veicolo, se non fosse convinto che siamo al sicuro.»

«E come sappiamo che sta scaricando?» replicò Harvey.

Un’espressione cauta turbò il viso di solito tranquillo di Boumour.

Harvey la interpretò, poi sorrise.

«Harvey!» gli segnalò Lizbeth. «Pensi che…»

«No, là fuori c’è il nostro autista,» la rassicurò il marito con lo stesso sistema. «Dall’odore, direi che siamo in qualche riserva naturale. Inoltre non abbiamo sentito nessun rumore di lotta. Ed è impossibile catturare un Cyborg senza lottare.»

«Ma dove siamo?» gli chiese Lizbeth.

«Tra le montagne,» la informò Harvey. «E considerato il viaggio, ho l’impressione che siamo molto lontani dalle strade più trafficate.»

Improvvisamente il loro nascondiglio sussultò e si spostò di lato. Il neon si spense. Nell’oscurità, la parete alle spalle di Harvey venne staccata. L’uomo strinse a sé Lizbeth, si voltò, fissò un panorama buio… illuminato soltanto dalla luna… e la forma massiccia dell’autista, profilata contro le luci lontane della megalopoli. La luna inargentava le cime degli alberi sotto di loro e nell’aria aleggiava l’odore resinoso degli aghi di pino sollevati dal passaggio dell’hovercraft. I dintorni erano immersi in un silenzio profondo, come se la natura stesse studiando quegli intrusi.

«Uscite,» ordinò l’autista.

Il Cyborg si girò. Harvey scorse i suoi lineamenti, improvvisamente illuminati dal chiaro di luna, esclamò, «Glisson!»

«Le porgo i miei saluti, Durant,» disse Glisson.

«Perché è stato scelto proprio lei?» gli chiese Harvey.

«E perché no?» ribatté Glisson. «Ora scendete di lì.»

Harvey protestò, «Ma mia moglie non è in grado di…»

«So delle condizioni di sua moglie, Durant. Ma è passato del tempo dall’intervento che ha subito. Può camminare, se non si sforza troppo.»

Igan mormorò nell’orecchio di Harvey, «Sua moglie non avrà problemi. La faccia alzare con gentilezza e la sorregga.»

«Io… sto bene,» disse Lizbeth. «Ecco.» Poggiò un braccio sulla spalla di Harvey. Insieme, scesero a terra.

Igan li seguì, chiese, «Dove siamo?»

«Da qualche parte, diretti verso qualche altro posto,» replicò Glisson. «Come sta il nostro prigioniero?»

Boumour gli rispose dall’interno del nascondiglio. «Sta rinvenendo. Aiutatemi a farlo uscire.»

«Perché ci siamo fermati?» chiese Harvey.

«Dobbiamo affrontare una salita molto ripida,» disse Glisson. «Meglio sbarazzarci del carico. L’hovercraft non è fatto per un lavoro del genere.»

Boumour e Igan li superarono trasportando Svengaard, che deposero contro un tronco d’albero sul ciglio del sentiero.

«Aspettate qui, mentre sgancio il rimorchio,» disse Glisson. «E riflettete su Svengaard; forse dovremmo abbandonarlo.»

Sentendo pronunciare il nome, quest’ultimo aprì gli occhi, si scoprì a fissare le luci lontane della megalopoli. Gli faceva male la mascella, a causa del pugno sferratogli da Harvey, e la testa gli pulsava. Aveva fame e sete. Le mani legate avevano ormai perso ogni sensibilià. Un intenso odore di aghi di pino colpì le sue narici. Starnutì.

«Forse dovremmo davvero sbarazzarci di Svengaard,» disse Igan.

«Io penso di no,» replicò Boumour. «È un uomo istruito, un possibile alleato. E avremo bisogno di uomini istruiti.»

Svengaard diresse lo sguardo verso il punto da cui provenivano le voci. Gli altri erano accanto all’hovercraft, una sagoma lunga e argentea davanti a un tozzo rimorchio. Poi si udì un rumore metallico. Il rimorchio scivolò all’indietro per almeno due metri prima di fermarsi contro un monticello di terriccio.

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