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All’interno della brulicante massa cellulare, comparve l’immagine molto nitida di un segmento di gene idrofilo. Svengaard si concentrò su di esso, dimenticando il buio, la propria consapevolezza totalmente rivolta verso il campo di visione dello strumento. I raggi mesonici penetrarono più a fondo… nel mitocondrio. Svengaard trovò le spirali alfa e iniziò a esaminare le catene di polipeptidi.

Poi corrugò la fronte, perplesso. Passò a un’altra cellula. Poi a un’altra ancora.

Le cellule mostravano un basso livello di arginina, di questo era certo. Mentre controllava ancora una volta, una ridda di pensieri si accavallò nella sua mente: Ma come può proprio l’embrione dei Durant, tra tutti, possedere una quantità tanto bassa di arginina? Qualsiasi normale embrione maschile possiederebbe più protamina spermatica di questo qui. E come può il sistema di scambio ADP-ATP non recare alcuna traccia dello schema Optimate? L’intervento non avrebbe potuto provocare una tale differenza.

Di colpo, Svengaard diresse il fascio di mesoni sui geni che stabilivano il sesso, osservò le loro catene che si intrecciavano.

È femmina!

Si raddrizzò e controllò il numero della vasca e l’etichetta. «Quindici. Durant.»

Allora guardò la cartella clinica, leggendola alla fioca luminosità emanata dal contatore. Riportava le annotazioni fatte dall’infermiera durante i primi ottantuno giri di controllo. Diede un’occhiata all’orologio: mancavano altri venti minuti all’ottantaduesimo giro.

Non è possibile che l’embrione dei Durant sia femmina, pensò. Non dopo l’operazione fatta da Potter.

Poi comprese che qualcuno aveva scambiato gli embrioni. I sistemi di supporto vitale non facevano alcuna differenza tra un embrione e l’altro. Senza un’attenta analisi al microscopio, nessuno avrebbe potuto accorgersi della sostituzione.

Chi era stato?

Nella mente di Svengaard, i candidati più probabili erano gli Optimati. Avevano portato l’embrione dei Durant in un luogo sicuro, e avevano lasciato al suo posto un sostituto.

Per quale motivo?

È un’esca, si rese conto. Un’esca.

Ma chi stanno tentando di prendere all’amo?

Si raddrizzò, con la bocca arida, il cuore che gli martellava in petto. Un suono proveniente dalla parete alla sua sinistra lo fece voltare di scatto. Il computer d’emergenza della sala delle vasche si era improvvisamente attivato: i nastri stavano iniziando a girare, le luci a lampeggiare. Svengaard udì il suono ronzante di una stampante.

Ma non c’è nessuno che lo sta adoperando!

Svengaard si voltò e fece per fuggire dalla sala, ma urtò contro una forma massiccia, solida. Mani e braccia lo bloccarono con forza spietata e, alle spalle del suo catturatore, Svengaard intravide un settore della parete aperto: all’interno brillavano luci fioche e si intuiva del movimento.

Poi un’oscurità immensa e profondissima sembrò calare sul suo cervello.

CAPITOLO NONO

La nuova addetta al computer dell’Ospedale di Seatac riuscì a parlare con Max Allgood al videotelefono dopo un intervallo molto breve, il tempo necessario alla Sicurezza per rintracciarlo. Sullo schermo, gli occhi di Allgood apparivano infossati. La bocca era contratta in una smorfia.

«Sì?» esordì. «Oh, è lei.»

«Sta accadendo qualcosa di molto importante,» gli comunicò la donna. «Svengaard si trova nella sala degli embrioni, e sta esaminando al microscopio quello dei Durant.»

Allgood alzò gli occhi al cielo. «Ma per l’amor di… Ed è per questo che mi ha tirato… che mi chiamato?»

«Ho sentito un rumore e lei mi aveva raccomandato…»

«Faccia finta che non le abbia detto nulla.»

«Le dico che ho udito del trambusto, e che adesso il Dottor Svengaard non è più nella sala, è sparito. E non l’ho visto uscire.»

«Probabilmente si sarà servito di un’altra porta.»

«Non ci sono altre porte.»

«Mi stia a sentire, dolcezza, ho una cinquantina di agenti che controllano quella sala. Neppure una mosca potrebbe muoversi là dentro, senza essere rilevata dai nostri sensori.»

«Allora controlli dove è andato Svengaard.»

«Oh, per…»

«Controlli!»

«Va bene, va bene!» Allgood attivò la sua linea riservata, contattò uno degli agenti. Attraverso l’altra linea, che era rimasta aperta, la donna poté udire le parole del capo della Sicurezza. «Dov’è Svengaard?»

Una voce, attutita dalla distanza, rispose, «È entrato, ha esaminato al microscopio l’embrione dei Durant, poi è andato via.»

«E uscito dalla porta?»

«Certo.»

Il viso di Allgood riapparve sullo schermo dell’addetta al computer. «Ha sentito?»

«Sì, ma sono rimasta nascosta all’estremità del corridoio dal momento in cui è entrato nella sala, e non l’ho visto uscire.»

«Probabilmente si sarà girata per pochi secondi.»

«Be’…»

«L’ha fatto, vero?»

«Posso aver distolto lo sguardo per un istante, ma…»

«E così l’ha perso.»

«Ma ho sentito del trambusto, lì dentro!»

«Se fosse successo qualcosa di strano, i miei uomini me l’avrebbero già riferito. Quindi dimentichi l’intera faccenda. Il nostro problema non è Svengaard. Loro mi avevano avvertito che probabilmente avrebbe fatto qualcosa del genere, e che noi non dovevamo preoccuparcene troppo. E su queste cose hanno sempre ragione.»

«Se è proprio sicuro.»

«Sì, ne sono sicuro.»

«Mi dica, ma perché siamo tanto interessati a quell’embrione?»

«Non ha bisogno di saperlo, tesoro. Ritorni al suo lavoro e mi lasci riposare per un po’.»

La donna interruppe la comunicazione, chiedendosi ancora la causa del rumore che aveva udito: era come se qualcuno fosse stato colpito da un oggetto.

Allgood rimase a fissare lo schermo vuoto. Rumore? Trambusto? Sul suo viso si dipinse una smorfia interrogativa, poi Allgood espirò lentamente. Dannata pazzoide!

Improvvisamente si alzò e si voltò verso il letto, in cui giaceva la Compagna che si era scelto per la notte, avvolta nella luce rosata di un abat-jour, ancora non del tutto sveglia; lo stava fissando. Lo sguardo dei suoi occhi dalle lunghe ciglia di colpo lo fece infuriare.

«Dannazione, fuori di qui!» ruggì Allgood.

La Compagna si rizzò a sedere sul letto, ormai completamente sveglia, lo guardò.

«Fuori!» le ordinò Allgood, indicandole la porta.

La donna quasi ruzzolò giù dal letto, raccolse i propri indumenti, e uscì di corsa: un fugace lampo di carne rosea.

Solo quando fu andata via, Allgood comprese a chi assomigliasse: a Calapine. Una ben misera copia, però. Poi si meravigliò della sua reazione. I Cyborg gli avevano assicurato che le modifiche che avevano fatto, gli strumenti che avevano impiantato nel suo corpo, lo avrebbero aiutato a controllare le proprie emozioni, gli avrebbero permesso di mentire impunemente perfino agli Optimati. Ma quello scoppio d’ira l’aveva spaventato. Abbassò lo sguardo su una delle pantofole, abbandonata sul tappeto grigio; l’altra era finita chissà dove. Diede un calcio alla pantofola e iniziò a camminare avanti e indietro.

C’era qualcosa che non andava. Lo sentiva. Era vissuto per quasi quattrocento meravigliosi anni, la maggior parte dei quali trascorsi al servizio degli Optimati. Di conseguenza aveva sviluppato un istinto quasi infallibile nel riconoscere le situazioni di pericolo. Era una questione di sopravvivenza.

C’era qualcosa che non andava.

Forse i Cyborg gli avevano mentito? Lo stavano usando per portare a compimento uno di quei piani tortuosi tanto tipici della loro logica?

Inciampò sulla pantofola, la ignorò.

Rumore. Trambusto.

Pronunciando sottovoce un’imprecazione, ritornò alla sua linea riservata, richiamò l’agente. Il volto che apparve sullo schermo aveva un che di infantile: labbra tumide, occhi grandi e ansiosi.

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