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La cosa migliore! pensò Svengaard. Durant aveva ragione: questi Cyborg sono insensibili come macchine.

«Fatelo ta-cere,» mormorò Nourse.

Svengaard lo guardò, notò il pallore del viso, le venuzze scoppiate sulle guance, la carne flaccida. Le palpebre di Nourse si sollevarono con uno sforzo enorme.

«Lo lasci a me,» disse Calapine.

Nourse mosse la testa, tentò di guardarla. Sbatté le palpebre: ovviamente aveva qualche problema a mettere a fuoco lo sguardo. Gli occhi iniziarono a lacrimargli.

Calapine gli sollevò la testa, la poggiò sul proprio grembo. Cominciò a carezzargli la fronte.

«Gli piaceva,» spiegò. «Vada ad aiutare gli altri, Dottore.»

«Cal,» gemé Nourse. «Oh, Cal… io… soffro.»

CAPITOLO VENTESIMO

«Ma perché li sta aiutando?» chiese Glisson. «Non la capisco, Boumour. Le sue azioni sono illogiche. A cosa serve aiutarli?»

Sollevò lo sguardo sul segmento aperto del Globo, al cui interno Calapine sedeva sulla piattaforma dei troni della Tuyere, da sola. Le luci emesse dagli strumenti giocavano lente sul suo viso. Un ologramma danzava nell’aria di fronte a lei.

Glisson era stato liberato dalla sua prigione di plasmeld, ma sedeva ancora sulla piattaforma, con i cavi che penzolavano dalle cavità vuote delle braccia. Lizbeth era sdraiata su di una gravi-barella e Harvey le era inginocchiato accanto. Boumour voltava le spalle a Glisson, e guardava all’interno del Globo. Muoveva meccanicamente le dita, flettendole, aprendole. Aveva la parte destra della camicia macchiata di sangue. Il volto dai lineamenti sottili come quello di un elfo aveva un’espressione perplessa.

Svengaard spuntò da dietro il globo, una figura che si muoveva lentamente nella penombra rossastra. Di colpo, la sala si illuminò tutta. I grandi fotoglobi si erano attivati automaticamente non appena, all’esterno, era calato il buio. Svengaard si fermò a controllare le condizioni di Lizbeth, diede una pacca sulla spalla di Harvey. «Non si preoccupi. Sua moglie si riprenderà perfettamente; è una donna forte.»

Gli occhi di Lizbeth lo seguirono mentre si avvicinava al Globo di Controllo e vi guardava all’interno. Le spalle di Svengaard erano curvate per la fatica, ma il suo sguardo era stranamente vivo, quasi raggiante. Svengaard era un uomo che aveva trovato se stesso.

«Calapine,» annunciò il medico, «l’ultimo dei feriti è stato inviato in ospedale.»

«Capisco,» rispose l’Optimate. Guardò i sensori video, tutti attivati. Più della metà degli Optimati erano stati internati, ormai impazziti. Migliaia erano morti. Altre migliaia erano gravemente feriti. I sopravvissuti osservavano il globo. Calapine sospirò, chiedendosi cosa stessero pensando i suoi pari, come affrontassero il fatto di aver perso il fragile dono dell’immortalità. Ma lei stessa provava emozioni che la confondevano. Nel suo petto, provava addirittura uno strano senso di sollievo.

«Schruille?» chiese a Svengaard.

«Schiacciato dalla folla che tentava di uscire,» rispose l’altro. «Lui è… morto.»

Calapine sospirò. «E Nourse?»

«Sta rispondendo alla cure.»

«Non ha ancora compreso cosa vi è accaduto?» le chiese Glisson. I suoi occhi scintillarono quando guardò Calapine.

Calapine lo fissò, parlò scandendo bene le parole, «Abbiamo subito un trauma emotivo che ha alterato il delicato equilibrio ormonale del nostro organismo,» rispose. «E siete stati voi, con un trucco, a provocarlo. Questo è chiaro… e non si può tornare indietro.»

«Allora sa tutto,» dichiarò Glisson. «Ogni tentativo di ritornare al vostro vecchio stato avrebbe come risultato quello di farvi precipitare nella noia e in un’apatia sempre più pronunciata.»

Calapine sorrise. «Sì, Glisson. E noi non lo vogliamo. Ora siamo affascinati da un nuovo tipo di… vitalità, che neppure sospettavamo esistesse.»

«Lei ha davvero compreso,» affermò Glisson con tono lievemente irritato.

«Avevamo spezzato il ritmo della vita,» disse Calapine. «Tutta la vita è dominata dal ritmo, ma noi ci siamo fermati. Immagino che questa fosse la causa di quell’interferenza esterna: il ritmo della vita che si imponeva di nuovo.»

«Bene,» disse Glisson, «prima cederete il comando a noi, prima le cose si aggiusteranno…»

«Il comando a voi?» chiese Calapine con voce piena di disprezzo. Guardò fuori, verso la sala illuminata, dominata da un netto contrasto tra luci e ombre. La separazione era così netta: tutto si riduceva ad un’opposizione bianco/nero. «Preferirei far morire tutti noi.»

«Ma state morendo!»

«Anche voi,» ribatté Calapine.

Svengaard deglutì. Si rendeva conto che l’antica animosità non si sarebbe placata facilmente. E si interrogò su se stesso: un bioingegnere di secondo rango che si era trasformato in un medico che curava coloro che avevano bisogno di lui. Durant aveva ben intuito il suo bisogno che altri avessero bisogno di lui.

«Ho un piano che forse tutti noi potremmo accettare,» affermò Svengaard.

«Io la ascolterò,» rispose Calapine con voce affettuosa. Studiò Svengaard, mentre il medico si sforzava di cercare le parole adatte, ricordando che quell’uomo aveva salvato le vite di Nourse e di molti altri.

Non avevamo fatto alcun piano per questa impensabile eventualità, rifletté. È possibile che questo individuo insignificante, fino a poco tempo fa oggetto della nostra derisione, possa salvarci? Ma non osava sperarlo.

«I Cyborg hanno elaborato tecniche che permettono di tenere sotto controllo le emozioni,» esordì Svengaard. «Una volta che le abbiate imparate, credo di conoscere un modo che permetterà di eliminare gli squilibri enzimici nella maggior parte di voi.»

Calapine deglutì. I sensori video iniziarono a lampeggiare, segno che gli osservatori volevano l’accesso ai canali di comunicazione. Ovviamente desideravano rivolgere delle domande a Svengaard. Anche lei ne aveva, ma non sapeva se sarebbe riuscita a trovare le parole adatte. Colse il riflesso del proprio viso in uno dei prismi, ricordò lo sguardo negli occhi di Lizbeth, quando la donna l’aveva implorata dalla piattaforma.

«Non posso promettervi una vita infinita,» disse Svengaard, «ma credo che molti potranno vivere ancora per molte migliaia di anni.»

«Perché noi Cyborg dovremmo essere d’accordo nell’aiutarli?» chiese Glisson. La sua voce aveva un tono calcolatore, quasi querulo.

«Anche voi rappresentate dei fallimenti!» esclamò Svengaard. «Non lo capisce?» Capì che aveva urlato, spinto dalla sua delusione.

«Non urli in quel modo quando parla con me!» replicò Glisson.

E così anche loro provano delle emozioni, pensò Svengaard. Orgoglio… rabbia…

«Avete ancora l’illusione di controllare la situazione?» domandò Svengaard al Cyborg. Indicò Calapine. «Quella donna lassù potrebbe sterminare ogni non-Optimate della Terra.»

«Ascoltalo, sciocco Cyborg,» intervenne Calapine.

«Non usi troppo la parola "sciocco",» la avvertì Svengaard, fissandola.

«Tenga a freno la lingua, Svengaard,» minacciò Calapine. «La nostra pazienza non è infinita.»

«E neppure la vostra gratitudine lo è, vero?» replicò Svengaard.

Un sorriso amaro sfiorò le labbra di Calapine. «Stiamo discutendo della nostra sopravvivenza,» disse.

Svengaard sospirò. Si chiese se gli schemi mentali creati dall’essere stati immortali avrebbero potuto essere modificati. Calapine aveva parlato come avrebbe fatto il vecchio membro della Tuyere. Ma la sua capacità di adattamento lo aveva già sorpreso altre volte.

Quello scambio di aspre battute aveva risvegliato tutti i timori di Harvey Durant per l’incolumità della moglie. Rivolse uno sguardo furioso su Svengaard e Glisson, tentò di controllare la sua paura, la sua rabbia. Quell’immensa sala gli incuteva soggezione, gli ricordava le scene caotiche che vi erano svolte. Il Globo torreggiava su di lui, una forza mostruosa che avrebbe potuto schiacciarli come insetti.

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