Calapine si coprì le orecchie con le mani. Ma sentiva ancora quel canto, attraverso la pelle. E si accorse che gli Optimati stavano abbandonando le file di banchi per avvicinarsi minacciosamente ai prigionieri. Sapeva che tra qualche istante sarebbe scoppiata una sanguinosa violenza.
Gli Optimati si fermarono.
Calapine non riuscì a comprenderne il motivo e tolse le mani dalle orecchie. Gli Optimati incominciarono a urlare, a invocare i nomi di dèi semi-dimenticati. Gli occhi di tutti stavano fissando una figura riversa al suolo.
Calapine ruotò su se stessa, vide Nourse che si contorceva sul pavimento della sala, con la bava alla bocca. La sua pelle era chiazzata da macchie porpora e gialle. Le mani artigliavano il pavimento.
«Fate qualcosa!» gridò Svengaard. «Sta morendo!» Non appena ebbe pronunciato quell’invocazione, si stupì di averlo fatto. Fate qualcosa! Ma era stata la coscienza di essere un medico a farlo parlare, nonostante tutto quello che era accaduto.
Calapine arretrò, sollevò le mani in un gesto di scongiuro antico quanto la stregoneria. Schruille balzò in piedi sullo scranno, con la bocca che si muoveva senza emettere alcun suono.
«Calapine,» disse Svengaard, «se lei non vuole aiutarlo, mi liberi e lo farò io.»
Calapine si affrettò a ubbidire, estremamente grata di poter scaricare quella tremenda responsabilità su qualcun altro.
Al suo tocco, la lastre di plasmeld che imprigionavano Svengaard rientrarono nella piattaforma. Svengaard saltò a terra, quasi cadde. Aveva le braccia e le gambe che gli formicolavano. Zoppicò verso Nourse, con gli occhi e la mente in frenetica attività. Colorito giallastro — probabilmente una reazione immunitaria all’acido pantotenico unita ad uno squilibrio nella soppressione dell’adrenalina.
Il triangolo rosso che indicava un Dispensatorio della Farmacia luccicava alla sua sinistra, al di sopra delle file di banchi. Svengaard si chinò, raccolse il corpo di Nourse ancora in preda alle convulsioni, iniziò a salire verso il simbolo. Improvvisamente, Nourse si accasciò tra le sue braccia, immobile tranne il leggero sollevarsi del petto.
Gli Optimati si scostarono da lui come se fosse un appestato. Di colpo, qualcuno urlò, «Fatemi uscire!»
La folla si mise a correre. Migliaia di piedi rimbombarono sul plasmeld del pavimento. Gli Optimati si accalcarono davanti le porte, scavalcandosi l’un l’altro, lottando follemente per essere i primi a uscire. Si udivano urla, imprecazioni, grida rauche. Era come se in un recinto di bestiame fosse stato liberato un predatore.
Una parte della coscienza di Svengaard registrò l’immagine di una donna alla sua destra. La superò. La donna giaceva tra due file di banchi, con la schiena ad un angolo assurdo, con la bocca spalancata, gli occhi che fissavano il sangue che le ricopriva le braccia e il collo. Non respirava più. Svengaard superò anche un uomo che si trascinava in avanti, con una gamba inutilizzabile, gli occhi fissi sull’insegna dell’uscita, attorno a cui si ammassavano centinaia di figure frenetiche.
A Svengaard avevano cominciato a far male le braccia. Incespicò, quasi cadde salendo gli ultimi due gradini. Depose il corpo di Nourse sul pavimento accanto al punto di distribuzione.
Dal basso lo stavano chiamando delle voci: Durant e Boumour che gli urlavano di liberarli.
Più tardi, pensò Svengaard. Premette il palmo della mano contro la serratura del Dispensatorio. Le porte rifiutarono di aprirsi. È ovvio, pensò. Io non sono un Optimate. Sollevò Nourse, premette una delle mani di Nourse sulla serratura digitale. Le porte scivolarono via. Dietro di esse si trovava un apparecchio di somministrazione, apparentemente del solito tipo: pirimidini, aneurina…
Aneurina e inositol, pensò Svengaard. Devo compensare la reazione immunitaria.
Il lato destro dell’apparecchiatura era occupato da una familiare console di controllo, con un foro per infilarvi un braccio e gli aghi collegati ai quadranti di misurazione. Svengaard premette alcuni tasti sulla consolle, aprì il pannello. Individuò gli aghi che somministravano aneurina e inositol, bloccò gli altri, posizionò il braccio di Nourse sotto gli aghi, che trovarono le vene, vi affondarono. Le lancette dei quadranti scattarono improvvisamente verso l’alto.
Svengaard interruppe il flusso di sostanze. I contatori ritornarono sullo zero.
Con delicatezza, Svengaard staccò gli aghi dal corpo di Nourse, lo adagiò sul pavimento. Il volto dell’Optimate era soffuso da un pallore mortale, ma il respiro era divenuto più forte. Sbatté le palpebre. Le pelle era fredda, madida di sudore.
È lo choc, pensò Svengaard. Si tolse la giacca, la drappeggiò intorno al corpo di Nourse, iniziò a frizionargli le braccia per riattivare la circolazione.
Calapine apparve alla sua destra, si sedette accanto alla testa di Nourse. Aveva le mani strette a pugno, su cui spiccavano bianchissime le nocche. I lineamenti del volto era incredibilmente nitidi, gli occhi fissavano lontano. A Calapine sembrava di aver percorso una lunga strada, da quando si era rialzata dal pavimento della sala, spinta da ricordi che non poteva cancellare. Sapeva che aveva superato la follia, era conscia di aver raggiunto una sanità mentale stranamente distaccata.
Il rosso Globo di Controllo attirò il suo sguardo: la fonte di un enorme potere, che ancora adesso l’attraeva. Poi pensò a Nourse, tante volte divenuto suo compagno di letto. Compagno e giocattolo.
«Morirà?» chiese e si voltò a fissare Svengaard.
«Non subito,» rispose il medico. «Ma quell’ultimo attacco isterico… ha causato danni irreparabili al suo corpo.»
Svengaard si rese conto che adesso nella sala risuonavano soltanto gemiti sommessi e qualche ordine impartito con voce calma. Erano intervenuti alcuni degli accoliti.
«Ho liberato Boumour e i Durant e ho richiesto altri… medici,» lo informò Calapine. «Ci sono stati dei… morti. Molti sono feriti.»
Morti, pensò poi. Che strano parola, se la si usa per gli Optimati. Morti… morti… morti…
Sapeva che la necessità del momento l’aveva forzata a raggiungere un nuovo stato stato di coscienza. Era accaduto laggiù, sul pavimento, in un diluvio di ricordi frutto di quarantamila anni di esistenza. Nessuno di essi le era sfuggito: né un momento di gentilezza, né un momento di crudeltà. Ricordava tutti i Max Allgood, Seatac… ogni amante, ogni giocattolo… Nourse.
Svengaard udì un suono di passi, si guardò intorno. Boumour lo raggiunse, reggendo tra le braccia una donna priva di sensi. Un lungo livido bluastro le attraversava una guancia e la mascella. Le braccia pendevano dal corpo come bastoncini spezzati.
«Il Dispensatorio funziona ancora?» chiese Boumour. La sua voce era gelida come quella di tutti i Cyborg, ma i suoi occhi avevano uno sguardo sconvolto, spaventato.
«Dovrà ricorrere ai controlli manuali,» lo avvertì Svengaard. «Ho disinserito quelli automatici.»
Boumour gli girò attorno con passo pesante, sempre reggendo la donna, che aveva un aspetto così fragile. Sul collo le pulsava una grossa vena.
«Devo somministarle qualcosa che rilassi i suoi muscoli, fino a che non potremo portarla in ospedale,» spiegò Boumour. «Si è fratturata entrambe le braccia… tensione contromuscolare.»
Calapine riconobbe il volto della donna, ricordò che un tempo avevano avuto una discussione senza importanza su un uomo, un compagno di letto.
Svengaard si spostò e continuò a massaggiare il braccio destro di Nourse. Quello spostamento gli permise di dare un’occhiata alla piattaforma. Impassibile, Glisson sedeva nel suo involucro. Lizbeth giaceva sul pavimento della sala, con il marito inginocchiato accanto.
«Mrs. Durant!» esclamò Svengaard, ricordando l’impegno che si era assunto.
«Sta bene,» lo rassicurò Boumour. «Rimanere immobile è stata la cosa migliore che potesse capitarle.»