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«Efficienza?» rifletté Calapine. «Forse hai ragione.»

Schruille non riuscì a contenere le emozioni contrastanti che infuriavano nel suo animo. «L’efficienza è l’opposto dell’abilità!» esclamò. «Pensateci sopra!»

I raggi arrivarono. I due vennero trasportati via, senza rispondergli, e lasciarono che fosse Schruille a richiudere il segmento. Poi sedé, finalmente solo, all’interno del centro di controllo che ammiccava di luci verdi, azzurre e rosse… solo tranne gli occhi scintillanti dei sensori video montati lungo l’orlo superiore del globo. Ne contò ottantuno attivati, che fissavano lui e il funzionamento del globo. Ottantuno dei suoi pari… o gruppi di essi che osservavano lui e il suo lavoro, mentre Schruille osservava a sua volta la Gente e le attività che essa svolgeva.

I sensori misero Schruille leggermente a disagio. Prima di prestare servizio nella Tuyere, non aveva mai osservato il globo e i suoi occupanti. In quel luogo avvenivano troppe cose terribili, a cui era meglio non pensare. Forse la Triade precedente era curiosa del loro lavoro? Chi erano coloro che li stavano osservando?

Schruille rivolse la sua attenzione agli strumenti. Spesso, in momenti del genere, gli sembrava di essere il "Signore della Verità" di Chen Tzu-ang, che vedeva l’intero mondo in una bottiglietta di giada. Bene, quel luogo era la sua bottiglia di giada. Gli sarebbe bastato sfiorare un bracciolo del trono con il suo anello di controllo per osservare una coppia che faceva l’amore a Warsopolis, studiare l’embrione contenuto in una vasca nella Grande Londra o liberare gas ipnotico in qualche strada di Nuova Pechino. Doveva soltanto sfiorare un pulsante e avrebbe potuto analizzare i ritmi mutevoli di un intera forza lavoro nella Megalopoli di Roma.

Scrutando nel proprio animo, Schruille non trovò alcuna ragione che lo spingesse a farlo.

Tentò di ricordare quanti visori erano stati accesi durante i primi anni del mandato della Tuyere; era sicuro che non superassero la dozzina. Adesso, invece, erano ottantuno.

Avrei dovuto avvertirli di fare attenzione a Svengaard, pensò. Avrei dovuto dir loro che possono far affidamento su una Provvidenza di tipo speciale per gli stolti. E Svengaard è uno sciocco che mi preoccupa.

Ma sapeva che Nourse e Calapine avrebbero sicuramente difeso Svengaard. Avrebbero insistito che quell’uomo era fedele, leale, degno di fiducia. Avrebbero scommesso qualsiasi cosa sulla sua lealtà.

Qualunque cosa? si chiese Schruille. Ma c’è qualcosa che non scommetterebbero sulla lealtà di Svengaard?

A Schruille parve quasi di udire Nourse che con tono supponente affermava, «Il nostro giudizio su Svengaard è esatto.»

Ed è questo che mi preoccupa maggiormente. Svengaard ci adora… come Max. Ma l’adorazione, per nove decimi, si basa sulla paura.

E col passare del tempo, scaturisce esclusivamente da essa.

Schruille alzò lo sguardo verso i visori accesi, parlò ad alta voce, «Tempo-tempo-tempo…»

E adesso lasciamo che si rodano il fegato, pensò.

CAPITOLO SETTIMO

Il luogo era una stazione di pompaggio del sistema di riciclaggio della Megalopoli di Seatac; si trovava a più di quattrocento metri di profondità e pompava nella Grande Colata acqua destinata all’irrigazione: un sottoprodotto del processo di riciclaggio. Era un edificio di quattro piani, un intrico di tubi, console di computer, passerelle d’accesso illuminate da fotoglobi sospesi su campi di forza, e pulsava al ritmo delle gigantesche turbine che controllava.

I Durant erano scesi laggiù durante l’ora di punta serale, servendosi dei condotti riservati al personale, muovendosi con calma, assicurandosi che nessuno li stesse seguendo e che non avessero su di sé alcun dispositivo-spia. Fino a quel momento, avevano superato senza difficoltà cinque punti di controllo.

Tuttavia erano stati attentissimi a "leggere" le espressioni e il comportamento delle persone che incontravano. La maggior parte di esse erano semplici, frettolosi cittadini, impegnati nei loro affari. Occasionalmente scambiavano uno sguardo di riconoscimento con un altro corriere, oppure identificavano qualche preoccupato funzionario di basso rango, in giro per eseguire un incarico per conto degli Optimati.

Nessuno si accorse di una coppia, vestita in abiti marroni come tutti i lavoratori, che emerse con le mani intrecciate sulla Passerella Nove della stazione di pompaggio.

I Durant si fermarono e si guardarono intorno. Erano stanchi, esaltati e anche un po’ timorosi: infatti erano stati convocati nel quartier generale dell’Associazione dei Genitori Clandestini. L’atmosfera era satura dell’odore di idrocarburi. Lizbeth annusò l’aria.

Ciò che disse al marito mediante il loro codice privo di parole fu leggermente venato di tensione. Harvey si sforzò di rassicurarla.

«Probabilmente incontreremo il nostro Glisson,» le disse.

«Potrebbero esistere altri Cyborg che hanno lo stesso nome,» replicò lei.

«È altamente improbabile.»

Harvey la spinse dolcemente verso la passerella, superarono una delle luci sospese, e due lavoratori che osservavano dei contatori Picot, con volti a cui l’illuminazione proveniente dal basso conferiva un aspetto bizzarro.

Lizbeth percepiva quanto fosse pericolosa la loro posizione e chiese, «Come facciamo ad essere sicuri che loro non ci stanno osservando?»

«Sai bene che questo è uno dei posti sotto il nostro controllo,» replicò Harvey.

«Ma come è possibile?»

«Basta filtrare i dispositivi spia attraverso un computer ottico. Di conseguenza, gli Optimati vedono soltanto ciò che noi vogliamo che vedano.»

«Comunque è pericoloso fidarsi di un simile espediente,» commentò Lizbeth. «Perché ci hanno convocato?»

«Lo sapremo tra pochi minuti,» rispose lui.

I Durant superarono un portello a tenuta stagna, che serviva a escludere la polvere, ed entrarono in un deposito di attrezzi, sulle cui pareti grigie si aprivano i fori dei tubi di trasmissione, oltre l’inevitabile computer che ticchettava, ronzava e lampeggiava. L’atmosfera di quel luogo era satura di un odore dolciastro di olio.

Quando il portello si richiuse alle spalle dei Durant, una figura apparve alla loro sinistra e si sedette su di una panca imbottita di fronte alla coppia.

I Durant la fissarono in silenzio. Avendola poi riconosciuta, provarono nei suoi confronti un moto istintivo di repulsione. La figura che stava loro di fronte non era né quella di un uomo né tantomeno quella di una donna. Mentre li osservava, sembrò formare un tutt’uno con la panca su cui sedeva. Poi quell’essere estrasse da una delle tasche della sua tuta grigia dei cavi e iniziò a inserirli nel computer montato nella parete.

Harvey concentrò la propria attenzione sul volto squadrato, profondamente segnato, dello sconosciuto, sui suoi occhi color grigio chiaro, vuoti, freddi, con lo sguardo carico di quell’attenzione priva di qualunque sfumatura emotiva che era tipica dei Cyborg.

«Glisson,» chiese Harvey, «è stato lei a convocarci?»

«Sono stato io,» rispose il Cyborg. «Sono passati molti anni, Durant. Ha ancora paura di noi? Vedo che è così. Siete in ritardo.»

«Non conosciamo bene questa zona,» si difese Harvey.

«E abbiamo fatto molta attenzione a non farci scoprire,» aggiunse Lizbeth.

«Allora vi ho insegnato bene,» commentò Glisson. «Eravate due alunni ragionevolmente bravi.»

Mediante il codice segreto, Lizbeth comunicò al marito: «Sono così difficili da leggere, ma c’è qualcosa che non va.» Distolse lo sguardo da quello del Cyborg, agghiacciata da quegli occhi calcolatori. A dispetto dei suoi sforzi per considerarli creature fatte di carne e sangue, la mente di Lizbeth non riusciva a dimenticare che i corpi dei Cyborg contenevano computer miniaturizzati collegati direttamente al loro cervello, mentre gli arti erano strumenti oppure armi. E la loro voce, poi: monocorde, con un tono che non ammetteva repliche.

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