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«Dove andremo?» chiese Harvey. Segnalò a Lizbeth di non interromperlo.

«Per voi è stato preparato un luogo adatto,» disse Glisson.

Il Cyborg si alzò, scollegò i cavi dal computer, disse, «Voi aspetterete qui. Non tentate di andarvene. Ovviamente provvederemo ai vostri bisogni.»

Glisson superò il portello, che si richiuse con un pesante tonfo.

«Sono tanto malvagi quanto gli Optimati,» segnalò Lizbeth.

«Verrà il giorno in cui ci libereremo sia di loro che degli Optimati,» rispose Harvey.

«Non accadrà mai,» ribatté Lizbeth.

«Non dire una cosa del genere!» le ordinò il marito.

«Se solo conoscessimo un dottore che è d’accordo con noi,» si rammaricò lei. «Potremmo prendere nostro figlio e fuggire via.»

«Che assurdità! Come potremmo tenerlo in vita senza la vasca e il macchinario per…»

«Quel macchinario è dentro di me,» ribatté Lizbeth. «Sono… nata con esso.»

Harvey la fissò, sconvolto da quelle parole.

«Non voglio che gli Optimati o i Cyborg controllino la vita di nostro figlio,» segnalò Lizbeth, «e influenzino la sua mente con gas ipnotico, ne ricavino cloni da usare per i loro scopi, lo dominino, lo costringano a…»

«Non perdere la calma,» la blandì Harvey.

«L’hai sentito anche tu,» disse Lizbeth. «Cloni! Possono controllare tutto, perfino la nostra esistenza. Possono condizionarci a… a fare… qualsiasi cosa! Per quel che ne sappiamo, potremmo essere stati condizionati a rimanere qui, proprio in questo momento!»

«Liz, stai diventando irragionevole.»

«Irragionevole? Guardami! Possono prendere un frammento della mia pelle e da esso far crescere una copia identica a me. Identica! Come sai che sono io? Come fai a essere sicuro che sono io quella originale? Eh, come fai?»

Harvey le afferrò il braccio con cui non stava comunicando e per un istante non trovò le parole. Poi si costrinse a calmarsi e scosse la testa. «Tu sei tu, Liz. Non sei semplicemente carne prodotta da una sola cellula… Tu sei… tutte le esperienze che abbiamo condiviso… tutto quello che abbiamo fatto… e vissuto insieme. Non possono duplicare anche i ricordi… anche usando un clone è impossibile.»

Lizbeth premette la guancia contro il ruvido tessuto della giacca di Harvey, bramando la sensazione tattile che suo marito fosse davvero lì con lei, che fosse reale.

«Creeranno dei cloni da nostro figlio,» gli disse. «È questo che stanno progettando, e tu lo sai.»

«Allora avremo molti figli.»

«Perché è successo?» Lizbeth sollevò lo sguardo sul marito, con le ciglia rese pesanti dalle lacrime. «Hai sentito quello che ha detto Glisson. Qualcosa di esterno ha modificato il nostro embrione. Cos’era?»

«Come posso saperlo?»

«Ma qualcuno dovrà pure saperlo.»

«Ti conosco,» segnalò Harvey. «Vuoi credere che si tratti di Dio.»

«E di cos’altro potrebbe trattarsi?»

«Potremmo essere di fronte al caso, oppure ad una manipolazione più sottile. Oppure qualcuno ha scoperto qualcosa che non vuole dirci.»

«Uno di noi? Non lo farebbe mai!»

«Allora si tratta della Natura,» disse Harvey. «La Natura che desidera imporre nuovamente se stessa, nell’interesse dell’Uomo.»

«Qualche volta parli come una cultista.»

«Non sono stati i Cyborg,» le segnalò Harvey. «Adesso questo lo sappiamo.»

«Glisson ha detto che si è trattato di una fortuna.»

«Ma stiamo pur sempre parlando di alterazione genetica. Per i Cyborg, questa è una bestemmia. Loro preferiscono alterare fisicamente il bioschema.»

«Come Glisson,» gli fece notare Lizbeth. «Quel robot rivestito di carne.» Ancora una volta premette la guancia contro il corpo del marito. «Ecco, questo è il mio timore più grande: che trasformino così nostro figlio… i nostri figli.»

«Per numero, noi Corrieri superiamo i Cyborg cento a uno,» la tranquillizzò Harvey. «Fino a quando rimarremo uniti, saremo sicuri di vincere.»

«Ma noi siamo fatti di carne e di sangue,» obiettò lei. «Siamo così deboli.»

«Tuttavia noi possiamo fare qualcosa che tutti questi Steri messi insieme non possono fare: perpetuare la nostra specie.»

«Ma cosa importa?» gli chiese Lizbeth. «Gli Optimati non muoiono mai.»

CAPITOLO OTTAVO

Svengaard attese che fosse giunta la notte e ispezionò l’area attraverso gli schermi montati nel suo ufficio, prima di recarsi nel locale in cui si trovava la vasca con l’embrione. Nonostante il fatto che quello fosse il suo ospedale e che lui avesse ogni diritto di recarsi lì, era consapevole di star commettendo un’azione proibita. Il significato del colloquio che aveva sostenuto alla Centrale non gli era sfuggito. Agli Optimati non sarebbe piaciuto, ma lui doveva guardare in quella vasca.

Superata la porta, si fermò, esitando nelle tenebre, rendendosi conto in maniera distaccata che non era mai entrato in quella sala, se non con le luci accese. In quel momento, invece, l’unica fonte d’illuminazione era costituita dalle lucette dei quadranti e delle spie: fievoli puntini luminosi e cerchi fosforescenti con cui orientare il proprio cammino.

Il rumore delle pompe creava un bizzarro ritmo monotono che pervadeva quell’ambiente fiocamente illuminato di un senso di urgenza. Svengaard immaginò gli embrioni ospitati nella sala (quella mattina erano stati ventuno) che uscivano dalle vasche e iniziavano a raddoppiarsi, sempre di più, in una strana ed estatica frenesia di crescere, diventando individui unici, distinti, separati.

Il gas contraccettivo che permeava l’aria respirata dalla Gente non era ancora stato loro somministrato. Per il momento, potevano crescere quasi come avevano fatto i loro predecessori, prima dell’avvento degli ingegneri genetici.

Svengaard annusò l’aria.

Le sue narici, rese istintivamente più sensibili dall’oscurità, percepirono nell’atmosfera il vago sentore salino del liquido amniotico. Dal suo odore, la sala avrebbe anche potuto essere la spiaggia primordiale su cui erano fiorite le prime forme di vita.

Svengaard rabbrividì e ricordò a se stesso, Io sono un ingegnere submolecolare, un chirurgo genetico. In questo posto non c’è nulla di strano.

Ma quel pensiero non riuscì a convincerlo del tutto.

Si allontanò dalla porta, iniziò a procedere lungo la fila di vasche cercando quella che ospitava l’embrione dei Durant. Nella sua mente aveva ben chiaro il ricordo di ciò che aveva visto: l’intervento esterno che aveva irrorato di arginina le cellule dell’embrione. Si era trattata di un’intrusione. Ma da cosa era stata provocata? Potter aveva ragione? Il responsabile era un ignoto creatore di stabilità? Stabilità… ordine… sistemi. Sistemi estesi… aspetti infiniti dell’energia che privavano di ogni concretezza il concetto di materia.

Nel buio colmo di sussurri, quei pensieri divennero di colpo estremamente inquietanti.

Inciampò contro il supporto di un apparecchio piuttosto basso e imprecò a sottovoce. Aveva un nodo allo stomaco, provocato dall’urgenza presente nel ritmo delle pompe, e dalla necessità, notevolmente concreta, di fare in fretta, prima che l’infermiera del turno di notte iniziasse i suoi giri ad intervalli di un’ora.

Una sagoma d’insetto, un’ombra profilata contro altre ombre, spuntò dalla parete di fronte a Svengaard. Il bioingegnere si irrigidì, e gli ci volle qualche secondo per riconoscere i contorni di un microscopio a mesoni.

Svengaard si voltò e osservò i numeri luminosi sulle vasche: dodici, tredici, quattordici… quindici. Eccolo. Controllò il nome sulla targhetta, leggendolo alla luce di un quadrante: "Durant".

Qualcosa in quell’embrione aveva irritato gli Optimati e allarmato oltremodo la Sicurezza. L’addetta al computer che aveva seguito l’intera operazione era scomparsa; e quella che aveva preso il suo posto era tremendamente mascolina e decisa…

Svengaard allontanò il microscopio dalla parete, lo mosse con attenzione nel buio, posizionandolo sulla vasca. Poi, a tentoni, stabilì il collegamento tra lo strumento e la vasca, che vibrava sotto le sue dita. Attivò il microscopio, lo regolò, si chinò verso l’oculare.

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